Recensioni

“Ballata per mia madre” di Julián Herbert

15 min di lettura

Da dove viene la voce di uno scrittore? Nel caso di Julián Herbert, dalle sue viscere. La sua è una voce biliosa, recalcitrante. «Alcuni confessano sulla carne, altri sulla carta», disse lo scrittore statunitense James Purdy nel suo scandaloso romanzo Rose e Cenere.

Non so perché, ma scoprire Julián Herbert mi ha fatto pensare a James Purdy. Due scrittori anticonformisti, eccessivi, spietatamente onesti. Se lo avesse conosciuto, la nobildonna e critica letteraria inglese Edith Sitwell avrebbe detto anche di Julián Herbert che «sa come descrivere un cuore dilaniato, e gira il coltello nella piaga con precisione chirurgica».

«Credo nell’esperienza radicale della scrittura. Non vorrei scrivere in un altro modo», ha detto lo scrittore messicano in un’intervista a El País. Ballata per mia madre è un’esperienza radicale anche per noi lettori. Julián Herbert sembra attingere al classico filone della narrativa familiare e la scrittura del lutto ma poi lo sovverte, stroncando sul nascere ogni tentazione melodrammatica. Non ci permette mai di commiserarlo troppo perché non pensa di meritarlo. Si lancia in una sorta di bungee jumping nel passato e ci trascina con lui, senza imbracatura e con il cuore dilaniato.

È capace di momenti brutali nei confronti di sua madre, come questo:

Una notte le ho detto che mi stava fottendo la vita. Che mi chiedeva soldi. Che passava i giorni depressa per aver perduto la bellezza: sprofondata su una poltrona a marcire a spese del mio ridicolo stipendio guardando orrendi film messicani degli anni Settanta trasmessi su canali in chiaro. Che mi dava la colpa di darle la colpa di tutto.

Che mi disse se te ne devi andare vattene grandissimo figlio di puttana ma tu non sei più mio figlio sei solo un cane rabbioso. Che l’ho odiata dal settembre del 1992 al dicembre del 1999. Che durante quegli anni mi sono religiosamente concesso ogni giorno un istante di odio verso di lei con la stessa devozione con cui altri recitano il rosario.1

E di momenti di una delicatezza struggente, che lascia senza fiato:

L’ho amata sempre come nella luce intatta del mattino in cui mi insegnò a scrivere il mio nome.2

VI PIACERÀ SE

Vi piacciono i libri brutalmente onesti, senza eroi, vittime o carnefici. Se cercate libri fuori dal comune, in cui l’autore si mette a nudo nelle sue debolezze e dipendenze senza cercare la vostra pietà o simpatia, e vi sfida a farlo anche con voi stessi.

L’EDITORE

Gran vía è una casa editrice umbra fondata nel 2006 da Fabio Cremonesi (traduttore che noi lettori conosciamo come voce italiana di Kent Haruf). Già dalla scelta del nome si può intuire quale sia la “gran vía” della casa editrice: la letteratura spagnola contemporanea con le sue varianti linguistiche (catalano, vasco e gallego) e la letteratura latinoamericana. Nel 2011 Cremonesi cede la guida all’attuale direttrice editoriale, Annalisa Proietti, che comincia un rinnovamento della veste grafica dei libri e delle collane. Lo spirito di Gran vía però rimane intatto, sempre alla ricerca di autori innovativi che abbiano una voce forte e inconfondibile.

IL TITOLO

«Tradurre è come avere uno spartito per pianoforte e doverlo suonare col contrabbasso», disse in un’intervista una delle più autorevoli traduttrici dallo spagnolo all’italiano, Ilide Carmignani. La complessità del tradurre sta non solo nella fase interpretativa del testo originale, ma anche nella ricerca di una voce italiana adatta all’autore che si traduce, sapendo che rimarrà sempre un residuo intraducibile perché le lingue sono irrimediabilmente diverse tra loro.

E anche le culture lo sono. Per questo motivo, il titolo originale del libro di Julián Herbert, Canción de tumba, è intraducibile in altre lingue ed è stato modificato man mano che veniva tradotto in altri paesi. Sarebbe infatti impossibile da riprodurre in italiano il legame indissolubile tra vita e morte a cui il titolo spagnolo allude, e che fa parte della cultura messicana. La “canción de cuna” in spagnolo è la ninna nanna che i genitori cantano ai figli per farli addormentare, che diventa per Julián Herbert una “canción de tumba”, cioè una ninna nanna funebre che scrive mentre è al capezzale di sua madre.

La Catrina, che rappresenta il sorriso canzonatorio con cui da sempre i messicani affrontano la morte.
Foto presa da bbc.com

In italiano questo intreccio di richiami non si può ricreare, inoltre credo che dal punto di vista commerciale forse per noi un titolo del genere risulterebbe un po’ respingente, per motivi legati alla nostra cultura e al nostro rapporto con la morte. La morte in Messico, invece, non è considerata qualcosa di lugubre. I messicani sin da piccoli imparano a prenderla con ironia, sanno che è sempre presente e sono consapevoli che presto o tardi dovranno farci i conti.

Per i messicani la morte è parte di un tutto, si tratta di un ciclo che comprende anche la vita e non c’è separazione tra le due. Questo atteggiamento è profondamente radicato nella cultura messicana e ha origini antichissime, diversamente dalla mentalità europea per cui la morte è un tabù insuperabile.

Il poeta premio Nobel Octavio Paz scrisse nel suo saggio Il labirinto della solitudine:

La parola morte non è mai pronunciata a New York, Parigi o Londra, perché brucia le labbra. Il messicano, invece, ha familiarità con la morte, ci scherza, la accarezza, dorme con lei, la celebra; è uno dei suoi giochi preferiti e il suo amore più costante. Certo, nel suo atteggiamento c’è probabilmente la stessa paura che provano gli altri; ma almeno non si nasconde né la nasconde; l’affronta a viso aperto con pazienza, indifferenza o ironia.3

Nell’edizione italiana, perciò, la traduttrice Maria Cristina Secci ha dovuto rendere il concetto in maniera necessariamente infedele, e il titolo è diventato Ballata per mia madre.

L’AUTORE

Julián Herbert con il suo gruppo.
Foto di El País.

Julián Herbert, nato ad Acapulco nel 1971, è uno dei più importanti poeti messicani contemporanei, ma nella sua vita è stato anche tante altre cose. Ha iniziato a 15 anni scrivendo canzoni e cantando nei bar di Saltillo (dove ancora vive) per pochi spicci. È stato membro della rock band Madrastras, ma l’esperienza come cantante è durata poco (come direbbe Borges, con pochissimo successo ma molta vocazione).

È stata la solitudine a farlo avvicinare alla scrittura. Da adolescente, la sua introversione lo ha portato ad avere un rapporto nevrotico ed estremamente produttivo con la scrittura. Dai testi delle canzoni passò alle poesie, poi ai romanzi e infine ai saggi. Racconta che, nei continui spostamenti a cui lo costringeva la madre, finì a Ciudad Frontera, una città che si trova nel deserto di Coahuila. Gli anni passati lì sono come una cicatrice nel suo modo di concepire la vita, come se si trovasse sempre al confine di tutto. Per questo predilige la commistione di generi letterari, il migrare dal romanzo al saggio, dalla poesia al racconto.

Ballata per mia madre ha vinto il Premio Jaén de Novela Inédita nel 2011 e il Premio de Novela Elena Poniatowska, confermando il talento di Julián Herbert nel cancellare i confini tra i generi letterari per creare qualcosa di originale ed esteticamente audace.

LA TRAMA

Tutto comincia nell’ottobre 2008 nella stanza 101 del Hospital Universitario de Saltillo. Sul letto giace una donna che è stata registrata erroneamente come Guadalupe “Charles” invece che “Chávez”. Ironia della sorte, i cambi di identità l’accompagnano anche in punto di morte: «cambiava nome con la sfrontatezza con cui un’altra si tinge o si arriccia i capelli», dice di lei il figlio Julián. È stata Lorena, Vicky, Juana, Marisela, Lupita. Li cambiava man mano che si spostava da una città all’altra del Messico trascinandosi dietro i figli, tutti avuti da uomini diversi.

Guadalupe faceva la prostituta. Era una donna instabile e bellissima, una madre che passava dall’eccesso di amore all’eccesso di ira:

Una volta quando ero piccolo qualcuno mi picchiò per strada e mamma mi portò al commissariato di polizia per sporgere denuncia ma il segno non si vedeva. […] Per rendere più evidente il danno e punire così il colpevole, lei stessa mi diede un secondo calcio sulla caviglia.4

Julián passa le notti accanto al letto di Guadalupe, guardando tutte le incarnazioni di sua madre – Lorena, Vicky, Juana, Marisela, Lupita – prosciugarsi a causa della leucemia. Ha un laptop sulle ginocchia e inizia a scrivere. Come racconta in un’intervista, questo libro doveva essere all’inizio una confessione intima da condividere solo con la sua compagna, Mónica. L’infanzia e l’adolescenza vissute come un pacco sballottato tra bordelli e baracche, i tentativi di violenza subiti, le sue dipendenze, la sua tendenza all’autodistruzione, le due precedenti paternità malvissute e la paura di essere un pessimo padre anche per il figlio in arrivo.

È ossessionato dal dirle tutto, senza fare sconti a nessuno. Né alla madre morente (che non per questo riceve la compassione del figlio e non ci sarà mai nessun processo di redenzione per lei), né a sé stesso. Più scrive a Mónica, e più si rende conto che quelle parole scritte di getto hanno il tono di un romanzo. Il tono di uno scrittore disposto a mettersi a nudo di fronte al lettore. E allora la confessione rimane, ma i destinatari stavolta siamo noi lettori.

L’umorismo acido e rassegnato di Julián non fa sconti nemmeno al suo paese – il Messico – che sembra incarnarsi nel corpo in disfacimento di Guadalupe: i gemiti, i dolori, l’atroce impotenza e la perdita di ogni dignità e bellezza nel corpo della madre sono gli stessi che si vedono fuori dall’ospedale, nelle strade della “Suave Patria”. Nonostante non indugi in quell’estetica della violenza che ha caratterizzato tanta letteratura messicana, Julián Herbert è amaramente consapevole delle ingiustizie profonde, la corruzione e la ferocia di cui è imbevuta la vita nel suo paese, e le lascia filtrare da ogni pagina del suo romanzo.

In questo rimbalzo di rimandi, il Messico è – come sua madre – una prostituta. Un paese sbandato che sembra concedersi al miglior offerente, senza pensare alle conseguenze per chi ci vive. Tuttavia, così come rimane al capezzale di sua madre nonostante i loro trascorsi, allo stesso modo Julián Herbert decide di rimanere in Messico. Odia entrambi nella stessa misura in cui li ama.

Il rischio più grande, nel compiere questo tipo di operazioni in letteratura, è quello di diventare troppo autoreferenziale. Rischio ampiamente scongiurato in questo romanzo, perché Julián Herbert costruisce una struttura complessa, sostenuta da una lingua ricchissima che mescola slang e citazioni letterarie; una sorta di caos sofisticatissimo in cui l’autore s’interroga continuamente sul senso del narrare e ci lascia partecipare al “farsi” del romanzo.

INTERVISTA A MIRKO VISENTIN, DESIGNER DELLA COPERTINA

Oltre al titolo, anche la copertina dell’edizione italiana risulta molto diversa da quella originale. Personalmente, a me sembra anche più bella. La cosa mi ha incuriosito, e ho provato a scrivere a Mirko Visentin, designer della copertina. Mirko ha risposto alle mie curiosità, e ne è nata un’intervista che condivido con voi:

Non capita spesso di parlare del processo creativo che sta dietro la creazione delle copertine, eppure la copertina è fondamentale perché catturare l’occhio del lettore significa spesso aver già venduto metà del libro. Nell’edizione di Random House compare un bambino imbronciato in bianco e nero, che richiama lo scrittore da piccolo. Nell’edizione italiana, invece, tu hai deciso di ribaltare tutto, rendendo protagonista la madre e puntando sui colori. Come sei arrivato a questo risultato?

Mirko Visentin: Dovendo attenermi al progetto grafico che avevo realizzato l’anno prima per la neonata collana Gran Vía Original, mi serviva innanzitutto un soggetto tendenzialmente astratto da usare come elemento di fondo (seppur non coprente) della copertina.

Leggendo le prime pagine del libro ero rimasto colpito dall’immagine dell’autore-bambino che si sposta continuamente da un villaggio all’altro del Messico al seguito della madre, e me lo sono immaginato mentre dal finestrino osserva il cielo che si stende sopra pianure desertiche del Sudamerica. La foto che avevo trovato era però troppo didascalica e realistica.

Per “staccarla” dal qui-e-ora e suggerire inoltre la presenza di un vetro tra il soggetto e gli occhi di chi lo stava osservando ho applicato, tramite lo smartphone, uno dei primi filtri “vintage” di Instagram, che ha aggiunto quei graffi alla superficie e virato i colori verso quelli tipici delle foto degli anni ’70 (gli anni dell’infanzia di Herbert). Il progetto grafico prevedeva inoltre un “elemento posticcio” (in Gran Vía lo chiamiamo così, perché non ha una collocazione precisa), da applicare sulla copertina come un adesivo o una serigrafia.

L’idea originaria era quella di creare un gioco di contrasti stilistici, aggiungendo inoltre una nota pop alla copertina grazie all’effetto timbro ad alto contrasto. Fino a quel momento avevo utilizzato solo oggetti: delle pillole, una bici, un furgoncino, una gabbia per uccelli. Nel caso di Herbert ebbi la fortuna di trovare una foto che per caratteristiche si prestava bene sia a evocare la madre dell’autore da giovane (descritta come una ragazza bellissima dai capelli mori e fluenti) sia a essere resa ad alto contrasto senza che si perdessero i tratti somatici e specialmente la plasticità della posa e l’intensità dello sguardo.

Qual è il tuo processo creativo ogni volta che devi creare una copertina? A cosa t’ispiri? 

Mirko Visentin: Non essendo un illustratore ma un designer, il mio approccio creativo è prima di tutto di tipo strutturale: scelta del carattere tipografico, della disposizione degli elementi, del colore. A volte, come nel caso di Ballata per mia madre, è mia anche la scelta iconografica, altre volte mi viene fornita o suggerita, e il mio compito diventa quello di armonizzare progetto e soggetto.

Per quanto riguarda i libri di Gran Vía, normalmente Annalisa Proietti mi racconta la trama del libro fornendomi qualche spunto, senza però pormi nessun vincolo. A volte cerco ulteriore ispirazione nello stile di scrittura dell’autore, leggendo qualche pagina. Evito di leggere tutto il libro, perché mi darebbe troppi spunti. Preferisco farlo quando è stampato e verificare così, a posteriori, la validità della copertina. 

Com’è nata la tua collaborazione con Gran Vía? 

Mirko Visentin: La mia collaborazione con Gran Vía ha inizio nel 2009 quando Fabio Cremonesi mi propose di rivisitare in chiave meno concettuale la grafica delle collane allora attive. Il rapporto si è intensificato e consolidato con il passaggio del marchio ad Annalisa, per la quale ho realizzato 5 progetti di collana per un totale di oltre 50 copertine.

PER APPROFONDIRE

Ballata per mia madre è diventata anche un’opera teatrale, con il titolo Flores negras del destino nos apartan. Diretta da Belén Aguilar, l’opera è andata in scena proprio a fine aprile di quest’anno al Centro Cultural Helénico di Città del Messico.

La direttrice ha raccontato che, come nel libro, anche nell’opera teatrale si affrontano temi complessi come il dolore, la perdita e la morte, ma è anche un’opera divertente. «Per me era fondamentale non perdere assolutamente nulla dell’ironia e del senso dell’umorismo che caratterizzano Julián», ha aggiunto Belén Aguilar. Qui potete ascoltare (in spagnolo) un’intervista alla direttrice e all’attore che interpreta Julián, José Juan Sánchez.

Infine, se siete curiosə di conoscere il Julián Herbert musicista, potete ascoltarlo qui.

Per questo mese è tutto, spero di avervi incuriosito e di avere risvegliato un po’ di interesse per questo libro stupendo!

Fatemi sapere cosa ne pensate nei commenti, o scrivendomi se vi va qui.

Un abrazo fuerte, vi auguro un mese di bellissime letture e ci risentiamo a fine maggio!

  1. Ballata per mia madre, Julián Herbert, Gran vía edizioni, pag. 45 ↩︎
  2. Idem ↩︎
  3. Traduzione mia ↩︎
  4. Ballata per mia madre, Julián Herbert, Gran vía edizioni, pagg. 45-46 ↩︎

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *