Jorge Baron Biza
Recensioni

“Il deserto” di Jorge Baron Biza


C’era bisogno dell’ennesimo blog letterario? No, in verità. Ci ho pensato per mesi, prima di aprire Clavel del aire. Non sono una critica letteraria, non lavoro in editoria, anche se è il mio sogno da sempre.

“Cosa posso apportare io di nuovo?”, mi sono chiesta. E la mia sindrome dell’impostore era lì, a fare il tifo perché abbandonassi l’impresa. Ho lasciato sedimentare l’intenzione, magari spariva da sola. E invece si è messa a urlare nella mia testa, sempre più forte.

Allora eccomi qua, a scrivere il primo articolo. Il più difficile, dicono, e infatti sono molto emozionata. Vi risparmio di parlarvi anche qui del motivo per cui ho deciso di occuparmi solo di letteratura latino-americana (vi rimando per questo alla sezione “Chi sono” di questo blog).

Non contenta di infilarmi in una nicchia che più nicchia non si può, ho deciso di darmi ancora di più la zappa sui piedi: qui non pubblicherò recensioni di libri appena usciti. Ci sono tanti book bloggers che lo fanno da tempo con molta competenza. Io preferisco essere un’esploratrice di libri poco noti, libri che sono passati in sordina e non hanno avuto il successo editoriale che meritavano. Nel mio piccolo, cercherò di farveli scoprire e amare.

Per molto tempo ho cercato IL libro da cui iniziare questo blog. Il primo libro è una dichiarazione d’intenti, e la scelta mi metteva parecchia ansia. Cercavo un libro che mi scuotesse da mesi di letture tiepide, che fosse scritto divinamente e che, ovviamente, non avesse ottenuto il successo che meritava.

Quel libro è Il deserto di Jorge Baron Biza, edito da La Nuova Frontiera.

VI PIACERÀ SE

Non giudicate mai un personaggio, nemmeno quando si mette a nudo davanti a voi mostrandovi il suo lato peggiore, e se non vi spaventano le storie in cui dovete attraversare un bel po’ di buio prima di vedere (forse) la luce.

L’EDITORE

Ho deciso di cominciare questo progetto da una casa editrice che mi sta molto a cuore, La Nuova Frontiera.

Lorenzo Ribaldi la fondò a Roma nel 2002, quando in Italia non c’era ancora un lavoro sistematico di scouting e ricerca di nuove voci per quanto riguarda la letteratura latino-americana: c’erano stati i grandi scrittori del boom (Gabriel García Márquez, Mario Vargas Llosa, Julio Cortázar, Carlos Fuentes, Jorge Amado ecc.), che divenne un’ottima operazione di marketing in tutto il mondo, ma finì per coprire molte altre voci che non si identificavano con il boom. La Nuova Frontiera nacque quindi con l’intento di recuperare le generazioni di scrittori e scrittrici persi nel boom, e per esplorare – come dice il nome – altre frontiere e altri luoghi di contaminazione.

Oggi La Nuova Frontiera ha un catalogo ricchissimo che comprende anche libri per bambini e molte esplorazioni letterarie al di là del romanzo (saggistica, reportage giornalistico, diaristica), per rimanere sempre attenta agli sviluppi del mondo contemporaneo.

L’AUTORE


Il cognome Baron Biza ha un ruolo importante nella mitologia della città di Córdoba, la seconda più popolosa dell’Argentina dopo Buenos Aires. Percorrendo la strada rurale che unisce Córdoba alla località di Alta Gracia, ci si imbatte in un obelisco eccentrico a forma di ala che è ancora oggi il monumento più alto di tutta l’Argentina. Fu fatto costruire nel 1936 da Raúl Baron Biza – padre del nostro autore – per onorare la memoria della sua prima moglie, Myriam Stefford, una delle prime donne pilota in Argentina.

I due formavano quella che oggi chiameremmo una “coppia da tabloid”: lei era un’aspirante attrice svizzera fuggita di casa a quindici anni con il sogno di una carriera nel cinema; lui era un ricco proprietario terriero che aveva passato la giovinezza nella Parigi della Belle Époque. Amava scrivere, sedurre e scandalizzare.

Fu autore di libri ispirati al Marchese de Sade, tra cui il best-seller Il diritto di uccidere – un romanzo erotico e pseudo-filosofico pieno di risentimento, droghe, sesso e misoginia – che gli valse una condanna per oscenità e una scomunica del Papa. La sua megalomania era tale, infatti, che rivestì d’argento una copia del libro e la inviò in Vaticano con la seguente nota: “Che questo libro porti una nota di luce nel triste salone della tua oscura biblioteca”. Notevole, che ne dite?


Raúl e Myriam si erano conosciuti a Venezia nel 1928 e si erano sposati nella basilica di San Marco. Per un paio di anni condussero una vita lussuosa ed eccentrica: soggiorni a Capri e in Costa Azzurra, vacanze invernali a St. Moritz e passeggiate a Berlino con tanto di leopardo ammaestrato al guinzaglio.

Poi, nel 1931, Myriam volle tentare un’impresa: 4100 km in 4 giorni con un aereo biposto pilotato da lei stessa, che aveva ottenuto la patente di volo pochi giorni prima e non aveva quasi esperienza. Era una donna ambiziosa e temeraria: prima di decollare le chiesero se avesse paura, lei rispose che aveva sempre vissuto al massimo, e se doveva morire lo avrebbe fatto allo stesso modo.

Ad accompagnarla nel piccolo aereo c’era Ludwig Fuchs, istruttore di volo e veterano della Prima guerra mondiale. Qualcosa però andò storto, perché il velivolo precipitò pochi giorni dopo e Myriam morì a soli 25 anni. Con il tempo si diffuse il sospetto che l’aereo fosse stato sabotato dallo stesso Raúl, geloso della presunta relazione tra la moglie e l’istruttore di volo. Non ci furono mai prove, ma quest’episodio segnò l’inizio della storia oscura dei Baron Biza. Il corpo di Myriam fu sepolto sotto l’obelisco, insieme (pare) ai gioielli che il marito le aveva regalato in Europa, tra cui un diamante di 45 carati.

Da quel momento in poi, Raúl cominciò a impegnarsi in politica come oppositore della sua stessa classe sociale e conobbe Clotilde Sabattini, figlia del governatore di Córdoba. La rapì dal collegio dove lei si trovava e la sposò. Lei aveva sedici anni, lui trentanove. Clotilde ne ll deserto è Eligia, mentre Raúl è Arón Gageac. Jorge Baron Biza decise di usare dei nomi falsi per i suoi genitori e anche per sé stesso (nel romanzo è Mario Gageac) nella speranza di mettere la tragedia familiare “più fuori di sé che dentro di sé”.

LA TRAMA


16 agosto 1964. Arón Gageac convoca nel suo elegante appartamento di Buenos Aires la moglie Eligia – importante pedagogista e politica rivale di Evita Perón – per definire i termini del divorzio. Il loro non era stato un matrimonio ma, come lo definisce il figlio Mario, un “infinito e passionale divorzio” durato vent’anni.

In presenza dei rispettivi avvocati, Arón rifiuta però di porre la sua firma sulle carte e getta sul volto di Eligia un bicchiere contenente dell’acido (vetriolo). Se lei voleva lasciarlo, allora lui doveva essere l’ultima cosa che lei avrebbe visto nella sua vita.

Questo è il folgorante inizio del romanzo, che in maniera quasi cinematografica ci catapulta su un taxi in corsa nella notte verso l’ospedale, mentre Mario osserva Eligia strapparsi i vestiti fradici di vetriolo e i passanti spiano dentro l’abitacolo “senza capire se si tratta di una scena erotica o funesta”. Il viso deturpato di Eligia viene descritto con una precisione pittorica quasi ossessiva (Jorge Baron Biza era anche un eccellente critico d’arte), dove vediamo delle ustioni che virano a un “porpora molto signorile” e delle chiazze “circondate da un giallo tenue”. Questo è uno degli aspetti del romanzo che colpisce di più, a mio avviso: non c’è sentimentalismo, l’autore non cerca mai la pietà o l’empatia del lettore.

Mario ricostruisce le trasformazioni del viso di sua madre attraverso immagini che richiamano prima il mondo dei frutti e dei fiori; poi la carne diventa un paesaggio roccioso e pieno di crateri, rigido e impenetrabile. Jorge Baron Biza sembra quasi volerci dire che quello è l’unico modo per tollerare lo sfacelo sul volto di Eligia, che non chiamerà mai “mamma” in tutto il romanzo. Per permettere al narratore di sopravvivere e all’autore di essere riconosciuto come romanziere, è necessario che ci sia questa distanza dalla materia narrata.

Quella sera stessa, Arón si rinchiude nel suo appartamento tra i suoi libri e si spara un colpo alla tempia.

Quest’evento terribile è il punto di partenza di un processo lento e doloroso di demolizione e ricostruzione, non solo del volto di Eligia, ma anche della sua identità e di quella del figlio. Mario assiste la madre per anni, seguendola nei lunghissimi ricoveri prima in una clinica di Buenos Aires – dove riceve le prime cure conservative – e poi, dato che nessun chirurgo in Argentina vuole assumersi la responsabilità di intervenire sul volto di una personalità nota come Eligia, i due si trasferiscono a Milano nella clinica del dottor Calcaterra, uno dei migliori specialisti al mondo in chirurgia ricostruttiva.

Di giorno, tra lembi di pelle persi e guadagnati, impianti e necrosi, Mario si riduce a paziente testimone della carne di sua madre, descritta con uno scrupolo scientifico che diventa una sorta di auto-anestesia, l’opposto della violenza paterna. Di notte, mentre Eligia dorme, Mario si lascia andare invece all’alcolismo e alla degradazione in una Milano nebbiosa e seducente, fatta di ricchi arroganti e abbagliati dal boom economico degli anni ’60, ma anche di macerie lasciate dalle bombe della Seconda guerra mondiale, in un paesaggio urbano che sembra riprodurre il caos del volto di Eligia.

Quando lo scorso dicembre a Più Libri Più Liberi ho chiesto a Lorenzo Ribaldi di raccontarmi qualcosa su questo libro, mi ha detto che l’ha scovato più o meno quindici anni fa in Argentina, grazie al consiglio di un suo conoscente. E alla mia domanda su cosa lo colpì del romanzo, mi disse semplicemente: è bellissimo. E non potrei essere più d’accordo con lui.

Non fatevi intimidire dalla crudezza delle vicende autobiografiche: sicuramente si tratta di un romanzo brutalmente sincero e a tratti doloroso, ma secondo me libri del genere sono imprescindibili. Sono piccoli miracoli.

La grandezza di Jorge Baron Biza sta nella capacità di far convivere nelle sue pagine la violenza con la bellezza, la degradazione con l’arte, la disperazione con l’ironia. La vicenda autobiografica rimane sempre più in sordina e si allarga fino a diventare universale, fino a costringere noi lettori a porci certe domande sulla nostra vita stessa.

GINA MANERI E LA TRADUZIONE DEL COCOLICHE

Dal punto di vista linguistico, altro elemento che rende questo romanzo unico è l’uso del cocoliche. Si tratta di una sorta di pidgin che modella il lessico spagnolo sulle costruzioni sintattiche dell’inglese o del tedesco – lingue parlate da alcuni dei personaggi – per suggerire che nel libro una lettera è scritta o una conversazione si svolge in una lingua diversa dallo spagnolo.

Quando Mario arriva in Italia, il cocoliche viene usato anche per marcare la distanza linguistica (e culturale) tra il protagonista, ispanofono, e gli interlocutori italiani. Jorge Baron Biza fa un uso quasi filosofico del cocoliche: per lui è una caratteristica intrinseca della letteratura argentina, che è sempre un “transito verso l’esilio”. Il linguaggio assume un valore esistenziale, perché tutto quello che si può dire deriva da un dialogo tra il sapere e il non sapere un’altra lingua. Nel caso di Mario, il cocoliche accentua infatti il suo smarrimento e la perdita della sua identità.

Come rendere questa complessità in italiano? Ci voleva una traduttrice esperta e creativa come Gina Maneri, che mi ha raccontato come ha lavorato:

“Nella traduzione italiana avevo il problema di non poter mantenere l’itagnolo nelle battute di dialogo dei personaggi italiani; ho molto esitato (c’era il rischio macchietta), ma non volevo perdere quella distanza, quel senso di estraneità del protagonista in Italia. Ho quindi trasferito l’itagnolo su di lui, che peraltro dichiara di avere imparato giusto un po’ di italiano dai film con Gassman. Mi sono ispirata ai tipici errori degli ispanofoni quando parlano l’italiano (me, te, invece di mi, ti; niente doppie, strutture spagnole ricalcate ecc.)”

“IL DESERTO” E IL SUO DESTINO EDITORIALE

Il deserto è un romanzo autobiografico, ma non è soltanto questo. Come disse Jorge Baron Biza in un’intervista, “la letteratura è diversa dal dolore. È esattamente il momento in cui il dolore deve fermarsi per diventare qualcos’altro. È il lavoro per dare al dolore esistenziale una qualità diversa: l’esattezza, la precisione e la distanza della scrittura”.

Non a caso, Jorge Baron Biza scrisse questo romanzo trentacinque anni dopo i fatti che racconta, quando aveva ormai superato la cinquantina. Viveva a Córdoba ai margini del mondo letterario, dopo aver fatto il giornalista e il correttore di bozze a Buenos Aires per anni.

Aveva l’asma, il fegato distrutto dall’alcol e l’anima ancora devastata dalla tragedia familiare. Il suo cognome evocava un passato nobile, ma il padre aveva sperperato in eccessi vari (sommosse politiche, pazzie, ecc.) il patrimonio dei Baron Biza. Jorge inviò il romanzo a varie case editrici argentine che lo rifiutarono. Nel 1997 lo inviò al Premio Planeta, ma non arrivò nemmeno tra i primi dieci finalisti. Lo pubblicò allora a sue spese nel 1998 con la casa editrice Simurg.

La stampa cominciò a parlarne, ci furono giudizi molto positivi da parte della critica, e Jorge entusiasta fotocopiava le recensioni sui giornali e le distribuiva agli amici. Ben presto, però, si accorse che l’interesse della stampa e dei lettori era più morboso che letterario: la leggenda nera dei Baron Biza (nel frattempo si erano suicidate anche la madre e la sorella) prevaleva sul valore artistico dell’opera e ne offuscava i meriti.   

“Il libro è stato accolto bene, sì, ma tutti hanno considerato solo l’aspetto autobiografico e il dolore non legittima la letteratura. Ciò che legittima la letteratura è il testo” disse in un’intervista. Il romanzo non rappresentò quindi la salvezza e l’esorcismo che Jorge si aspettava, anzi. Gli inimicò il fratello riaprendo vecchie ferite, e aumentò il suo senso di isolamento. Continuò a scrivere, voleva pubblicare testi umoristici per non rimanere attaccato all’immagine tragica che la critica gli aveva cucito addosso.

Ma a un certo punto non ce la fece più. Il 9 settembre del 2001, 48 ore prima che l’attacco alle Torri gemelle scuotesse il mondo, si suicidò saltando dalla finestra del suo appartamento a Córdoba. Nel bellissimo saggio che ha scritto per ricordare l’autore (lo trovate nella postfazione del libro pubblicato da La Nuova Frontiera), Alan Pauls dice che Jorge Baron Biza si uccide “perché capisce una cosa insopportabile: fino a che punto quell’unico libro che ha scritto, e che ha fatto di lui uno scrittore, gli toglie ogni possibilità di scrivere altro”.

Nel 2013, per fortuna, l’editore spagnolo Eterna Cadencia recupera questo capolavoro e poco dopo Babelia, la rivista del prestigioso giornale spagnolo El País, mette Il deserto tra i 25 migliori libri in spagnolo degli ultimi 25 anni.

Letteratura e vita s’intrecciano con ferocia e raffinatezza, si fanno carne e pulsano insieme. Non avevo mai letto nulla di simile. Leggete, per favore, questo libro meraviglioso.

PER APPROFONDIRE

Lo so, mi sono dilungata tantissimo e vi chiedo scusa! Cercherò di essere più breve nelle prossime recensioni. Ma se siete masochist* e siete arrivat* fin qui, allora vi propongo un paio di approfondimenti:

  • Vi incuriosisce sapere chi vinse alla fine il premio Planeta nel 1997? Soldi bruciati di Ricardo Piglia, edito in Italia da Sur.
  • Qui trovate la lista dei 25 migliori libri in spagnolo degli ultimi 25 anni pubblicata da El País.
  • Qui invece potete visitare l’archivio online con tanto materiale inedito su Jorge Baron Biza (in spagnolo).

Sono tanto felice di iniziare questa nuova avventura con voi, e spero di riuscire sempre a offrirvi contenuti di qualità.

Fatemi sapere cosa ne pensate nei commenti, o scrivendomi se vi va qui.

Un abrazo fuerte, vi auguro un mese di bellissime letture e ci risentiamo a fine marzo!

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