Recensioni

“Dominicana” di Angie Cruz

13 min di lettura
Dominicana di Angie Cruz

Questo romanzo è la dimostrazione di come la letteratura abbia il potere di colmare le lacune della vita e i silenzi tra generazioni.

L’autrice Angie Cruz, nata a New York da genitori emigrati negli Stati Uniti dalla Repubblica Dominicana negli anni ’70, cominciò a scrivere Dominicana nel 2005, dopo aver trovato una fotografia di sua madre Dania quando aveva undici anni e ancora viveva nelle campagne della Repubblica Dominicana.

A proposito di quella foto, la madre di Angie Cruz si limitò a raccontarle che suo padre le aveva proposto matrimonio per la prima volta quando lei aveva proprio undici anni, e quattro anni dopo l’aveva portata negli Stati Uniti. La madre si trovò così a New York senza conoscere la lingua e sposata con un uomo che aveva il doppio dei suoi anni, con la speranza che quel sacrificio avrebbe garantito dei visti per tutta la famiglia rimasta nella Repubblica Dominicana.

Foto presa da The Paris Review. La madre di Angie Cruz è al centro, con i calzini bianchi al ginocchio.

C’erano molti non detti, molte cose che sua madre non le raccontò mai di quegli anni, lontana dal suo paese tropicale nella fredda e dura New York.

Angie Cruz spostò allora la vicenda negli anni Sessanta, per prendere la giusta distanza emotiva dal dolore di sua madre, e per oltre dieci anni lavorò a molte versioni del libro, cercando di mettere insieme varie storie che le furono raccontate da molte donne emigrate a New York negli anni Sessanta e Settanta. Tutte storie simili.

Storie di razzismo, povertà, isolamento, nostalgia di casa, sacrifici. Ma, quando le raccontavano i loro primi anni negli Stati Uniti, tra i ricordi c’era una sola cosa che accendeva gli occhi di queste donne: «Le luci! Le luci erano sempre accese ovunque!». Era come se fossero atterrate su un altro pianeta.

Quando la madre seppe quale fosse l’argomento del romanzo, disse ad Angie: «a chi può interessare la storia di una donna come me? È così tipica…»

È così tipica ovunque nel mondo ancora oggi, ma nessuno ne parla mai.

VI PIACERÀ SE

Vi piacciono i romanzi dal sapore autentico e aspro e vi affascinano le storie dove le spezie e gli aromi accorciano le distanze con la propria casa, dove la cucina è una forma di resistenza all’oblio delle proprie radici. Se volete diventare adultə insieme alla protagonista Ana e vederla tirare fuori la tempra tipica delle donne latinoamericane.

L’EDITORE

Solferino è nata nel 2018 e prende il nome dall’indirizzo della sede storica del Corriere della Sera nel cuore di Milano (che è appunto in via Solferino 28 dal 1904), proprio per sottolineare come la nuova realtà editoriale nasca nella “casa” del primo quotidiano italiano, pur rimanendo da esso indipendente.

Solferino pubblica narrativa italiana e straniera, saggistica e libri per ragazzi, e come dichiara sul suo sito, “scommette sulle nuove voci e nel suo catalogo convivono e vengono valorizzati autori prestigiosi e voci inedite. Filo conduttore: l’originalità della proposta, l’incisività e l’unicità dello stile”. Dominicana è entrato nel catalogo di Solferino nel 2020, con la traduzione di Lucia Fochi (dall’inglese).

LA TRAMA DI DOMINICANA

«La prima volta che Juan Ruiz si dichiara io sono una ragazzina di undici anni, pelle e ossa e senza tette»1.

Così comincia Dominicana, con la voce di una bambina, Ana Canción. Siamo negli anni Sessanta e il dittatore Rafael Leónidas Trujillo, che per trentuno lunghissimi anni era stato il padre padrone della Repubblica Dominicana, è appena stato assassinato da sette sicari inviati dalla CIA. Cominciano i disordini e il paese precipita nel caos.

Ana vive una vita di stenti con la famiglia a Los Guayacanes, un paesino sul litorale a pochi chilometri da Santo Domingo. La loro casa non ha acqua corrente, l’elettricità manca spesso, e il terreno di famiglia è sempre meno produttivo. Insieme ad Ana vivono i genitori, la sorella Teresa e dei cugini rimasti orfani dopo un’alluvione.

Il padre di Ana è un uomo afflitto dalle difficoltà, in quella casa la roccia è la madre, “Mamá”: una donna che non ha un nome proprio per tutto il romanzo e che Angie Cruz ha deciso di lasciare in spagnolo volutamente, con quell’accento sulla “a” che ne ricalca quasi la durezza, l’ostinazione.

Mamá è decisa a fare qualsiasi cosa per far uscire la famiglia da quella miseria e impone ad Ana di sposare Juan Ruiz, che si è trasferito a New York con i fratelli per fare fortuna e tornare un giorno a Santo Domingo per aprire un’attività.

Ana non si è mai fatta affascinare dai racconti su New York. Le case, le auto, le pellicce, i bei vestiti, il sogno di una vita agiata. A lei le cose semplici piacciono. Non può, però, sottrarsi alle aspettative di Mamà, a quello che la famiglia vuole da lei. Non importa che lei non voglia trasferirsi, che Juan abbia il doppio della sua età e che non ci sia amore tra loro.

E così, a 15 anni e indossando un vestito rosso con pizzo bianco fatto da una sarta, Ana sposa Juan. Il dono di nozze è un passaporto che dichiara che è sposata e ha 19 anni. Il giorno di Capodanno del 1965, Ana Ruiz lascia tutto quello che conosce e viene confinata dal marito in un freddo edificio di sei piani a Washington Heights, quartiere di New York in cui ancora oggi risiede un’importante comunità dominicana.

Un matrimonio a Washington Heights, New York, 1971. Foto di Winston Vargas.

C’è il gelo newyorkese, una casa che odora di muffa e di sporcizia, dove Ana trascorre tutto il giorno da sola. Juan passa molto tempo fuori casa, non si occupa di lei. A volte squilla il telefono, Ana risponde e nessuno parla. Scoprirà così di non essere l’unica donna di Juan.

Ma, all’improvviso, mentre la Repubblica Dominicana scivola nel caos politico, Juan deve tornare per proteggere i beni della sua famiglia. Lascia César, il fratello minore, a prendersi cura di Ana a New York.

Ana rinasce: è libera di prendere lezioni di inglese in una chiesa locale, sdraiarsi sulla spiaggia di Coney Island, vedere un film al Radio City Music Hall, andare a ballare con César e immaginare un’America diversa.

Con César, così pieno di vita e diverso dal brutale fratello, Ana capisce che oltre all’obbligo nella vita esiste anche l’amore. Ma per Ana, scegliere per una volta un po’ di felicità per sé stessa significherebbe tradire Mamá, che ha posto sulle sue spalle la responsabilità di assicurare a tutta la famiglia il sogno americano.

Il finale è toccante, il momento in cui l’equilibrio tra i suoi doveri di figlia e la sua libertà di donna che sta sbocciando s’incrina definitivamente.

Angie Cruz racconta la storia di Ana, ma alla fine del romanzo abbiamo la sensazione che sia la storia di tante Ana che vivono in altri appartamenti, altri edifici, altri quartieri di tutti gli Stati Uniti, non solo negli anni Sessanta ma anche oggi. La finzione e la Storia si mescolano indissolubilmente in questo romanzo, mettendo al centro queste donne che hanno tracciato i contorni di molti quartieri statunitensi, che hanno tenuto salde e unite le loro famiglie, ma che hanno al tempo stesso subìto più di chiunque altro la crudezza e l’ambiguità del Sogno americano.

Dal punto di vista stilistico, la narrazione è fluida e i dialoghi scorrono senza segni grafici, vi troverete a girare le pagine quasi in apnea, senza rendervene conto.

La storia di Ana, però, non è solo il dramma dell’emigrazione. È anche una storia piena di luce, di consapevolezza di sé che cresce piano piano, di trovare la forza ogni giorno anche nelle piccole cose. Ana è stata “programmata” per essere rispettosa nei confronti della sua famiglia e fedele a suo marito, ma per tutto il romanzo cercherà sempre di tornare a quei due mesi in cui Juan era via e lei è stata libera di essere finalmente sé stessa.

«Resisti, mi dico e riposo i piedi nudi sul pavimento e immagino che siano le radici di un albero»2.

IPOCRISIA E INCLUSIVITÀ

In un’intervista, alla domanda su come vengono rappresentati i dominicani nei media statunitensi, Angie Cruz risponde:

“I dominicani costituiscono l’8 o il 9 per cento della popolazione di New York. Siamo circa 650mila oggi e non ho mai visto un dominicano raffigurato in un film o in un programma tv a New York. I latini comprano più biglietti per il cinema pro capite, ma dei 1.200 film che hanno incassato di più dal 2007 al 2018 solo il 3% degli attori protagonisti erano latini. In questo momento negli Stati Uniti la comunità latina rappresenta il 19% della popolazione.

Non saresti mai in grado di saperlo se guardassi un programma o un film ambientato negli Stati Uniti, o se entrassi in una libreria. Le nostre storie non sono ben rappresentate. Non avere le nostre storie raccontate, o peggio, stereotipate, nei principali programmi, limita la visione della nostra identità”.

Dominicana fu rifiutato per quattro anni, sia da case editrici piccole che grandi. Gli editori le dicevano che il romanzo non aveva mercato, o che non riuscivano a entrare in sintonia con la protagonista. L’appiattimento culturale, il fatto che ormai si pubblichino sempre gli stessi tipi di libri che veicolano praticamente un unico punto di vista mainstream (bianco ed eurocentrico in Italia, bianco e statunitense nel mercato USA) è un problema reale.

Negli Stati Uniti, 41 milioni di persone parlano spagnolo a casa, e di queste 22 milioni parlano anche inglese fluentemente (dati del 2020). Ciononostante, solo il 6% di chi lavora in editoria ha radici ispaniche, le case editrici non pubblicano romanzi in spagnolo per paura di scarse vendite, e non danno spazio ad autori e autrici di origine ispanica, che potrebbero raccontare storie autentiche e nuove con le loro voci, perché non vogliono rischiare. Eppure, le stesse case editrici si vantano sempre di essere inclusive e di abbracciare la diversità nelle loro pubblicazioni.

Qualche settimana fa ho visto un film che parla proprio di questo tema, American Fiction, vincitore di un Oscar nel 2024 per la miglior sceneggiatura non originale e tratto dal romanzo Cancellazione di Percival Everett (edito da La Nave di Teseo). Il protagonista, Thelonious Ellison è un professore universitario afroamericano che scrive romanzi che non hanno mai molto successo. L’ultimo è stato rifiutato dagli editori perché “non era abbastanza nero”.

Thelonious è stufo degli stereotipi sulla sua gente, del fatto che le persone afroamericane siano sempre viste come gangster, spacciatori o ragazze madri. Ma sembra che questo sia ciò che il mercato vuole, che i lettori vogliono. Una notte, in un impeto di rabbia, Thelonious scrive una feroce parodia dei soliti romanzi sulla vita del ghetto, riempiendola di stereotipi e di violenza. Manda il manoscritto al suo agente come scherzo, come sfogo, usando uno pseudonimo.

Improvvisamente, però, gli editori ne sono entusiasti e tutti lo vogliono pubblicare, offrendogli un anticipo enorme, che non ha mai avuto per tutti i libri complessi e raffinati che ha già pubblicato. E così, Thelonious si trova di fronte a un dilemma morale…

Angie Cruz in un’intervista afferma che vorrebbe vivere in un mondo in cui gli scrittori e le scrittrici di colore potessero scrivere quello che vogliono, con l’estetica che vogliono, ed essere apprezzatə per questo. Invece sono spesso “invitatə” a scrivere sui temi in voga in quel momento, la diversità e l’inclusività. Sembra che il colore della loro pelle o il fatto di essere immigratə non lasci loro scelta.

Per questo si è inventata un progetto, “The Ferrante project”, dove sedici scrittori e scrittrici di colore hanno potuto scrivere in maniera anonima, per poter sperimentare liberamente con la forma e gli argomenti senza dover per forza trattare il tema dell’identità razziale. Il risultato, racconta Angie, è stato un insieme di storie affascinanti e innovative, mentre gli autori e le autrici le hanno poi confessato quanto fosse stato liberatorio per loro scrivere in maniera anonima. Dovrebbe essere così sempre, purtroppo.

PER APPROFONDIRE

Ci sarebbero tante cose da dire sulla figura del dittatore Trujillo, uno dei primi a creare ed esasperare il proprio culto della personalità, un uomo talmente crudele da essere soprannominato “la tigre dei Caraibi”. Quest’articolo ripercorre la sua vita, dalla nascita in una famiglia umile fino alla scarica di proiettili che lo uccise sulla sua Chevrolet Bel Air nel 1961.

Qui invece vi segnalo un video d’epoca dell’Archivio Luce, datato proprio 1961, che dà la notizia della morte del dittatore.

Lo sapete perché la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne si celebra proprio il 25 novembre? C’entrano purtroppo anche qui la Repubblica Dominicana e la violenza di Trujillo. Un tratto tipico del trujillismo era il maschilismo esasperato, l’idea per cui tutte le donne dovessero venerarlo e acconsentire a ogni sua richiesta, anche sessuale. Minerva Mirabal fu la prima donna a opporsi apertamente al dittatore.

Aveva studiato giurisprudenza all’Università di Santo Domingo, dove si era avvicinata al movimento di resistenza clandestina “14 giugno”. Trujillo manifestò quasi subito un interesse ossessivo nei confronti di Minerva, sentendosi minacciato da quell’atto di insubordinazione da parte di una donna, per giunta istruita. Minerva fu imprigionata più volte e alla sua lotta politica si unirono le sorelle Patria e María Teresa, che militavano nel movimento clandestino con il nome in codice “Las Mariposas” (“le farfalle”).

Un francobollo commemorativo delle sorelle Mirabal

Il 25 novembre 1960 Minerva, Patria e María Teresa caddero in un’imboscata: gli uomini di Trujillo le portarono in una zona isolata e le bastonarono a morte, gettandole poi in una scarpata per simulare un incidente. Dedé, unica sorella della famiglia Mirabal sopravvissuta, dedicò tutta la sua vita a conservare la loro memoria, “Sopravvissi per raccontare la loro vita”, disse. Qui potete leggere un bell’articolo sulla storia delle Mariposas, e vi consiglio a questo proposito anche un romanzo molto toccante, Il tempo delle farfalle, scritto dall’autrice dominicana Julia Alvarez. Da questo romanzo è stato tratto un film nel 2001, con Salma Hayek nel ruolo di Minerva.

Infine, vi consiglio anche di dare un’occhiata alla pagina Instagram dominicanasnyc, dove Angie Cruz raccoglie foto di donne dominicane a New York dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta. Alcune sono davvero molto belle.

Spero che questa puntata vi sia piaciuta e vi ringrazio tanto per avere letto fino a qui! Vi ricordo che potete anche seguirmi su Substack, dove ogni mese esce una nuova puntata della newsletter Sudestada. Mi trovate anche su Instagram, dove pubblico contenuti ogni settimana e vi racconto curiosità, personaggi letterari e recensioni di libri.

Un abrazo, ci ritroviamo qui a febbraio per festeggiare il primo anno di questo blog!

  1. Angie Cruz, Dominicana. Solferino, 2020, pag. 9 ↩︎
  2. Angie Cruz, Dominicana. Solferino, 2020, pag. 347 ↩︎

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Scopri di più da Clavel del aire

Abbonati ora per continuare a leggere e avere accesso all'archivio completo.

Continua a leggere