Recensioni

“Il pane del patriarca” di Raduan Nassar

15 min di lettura

Tante persone nella vita, per mille motivi, non fanno ciò per cui sono nate. È un triste dato di fatto che non desta particolari polemiche ormai. Ma quando questo riguarda uno scrittore, cioè quando uno scrittore rinuncia a fare quello per cui si presume sia venuto al mondo, allora scoppia lo scandalo.

Ci sono stati vari casi nella storia della letteratura: Jerome D. Salinger, autore del libro-culto Il giovane Holden, la cui misantropia lo portò a scomparire dal mondo letterario nel 1965. Il poeta maledetto Arthur Rimbaud, che dai 15 ai 19 anni sconvolse i canoni formali della poesia e poi, semplicemente, mollò tutto. Il catalano Felipe Alfau, che viveva negli Stati Uniti e alla domanda «perché ha smesso di scrivere» aveva una risposta ingegnosa: la colpa era dell’inglese. Imparare una nuova lingua e scrivere in quella lo aveva reso più sensibile a certe complessità che non aveva mai affrontato prima.

Ma la risposta più originale fu sicuramente quella di Juan Rulfo: il grande romanziere messicano rispondeva ironicamente «perché è morto lo zio Celerino, quello che mi raccontava le storie»1.

La rinuncia del nostro autore di questo mese è forse la più sobria e la meno sensazionale di tutte. Quando lo scrittore Alejandro Chacoff nel 2016 andò a intervistare per il New Yorker Raduan Nassar, non poté evitare di fargli quella domanda. Quando si tratta di uno scrittore al culmine della sua fama, nessuno può concepire che rinunci a tutto quel talento. È impensabile per l’opinione pubblica che uno scrittore sopravviva alla sua opera e che lui stesso, e non l’opera, diventi postumo. A quella domanda, Raduan Nassar rispose con un laconico «chi lo sa? Davvero non lo so». Il motivo per lui non è così importante. Uno smette di fare qualunque mestiere e nessuno va a domandargli perché.

VI PIACERÀ SE

Faccio una premessa importante, ma doverosa perché voglio sempre essere sincera con voi: Il pane del patriarca non è un libro per tuttə. Leggerlo è come addentrarsi nella foresta amazzonica. Il ritmo vi si appiccica alla pelle come umidità, le frasi infinite e sinuose si attorcigliano come liane intorno alle braccia e alle caviglie.

Se vi ostinate a farvi strada in questa foresta di parole armati di machete, non ne verrete più fuori. Nonostante siano poco più di cento pagine, questo libro esige tempo e pazienza. Vi perderete più volte, cercherete di orientarvi con la punteggiatura, ma di punti ce ne sono ben pochi. E a un certo punto capirete: l’unico modo per leggerlo è affondare i piedi nella terra umida e coprirvi il corpo di foglie.

L’EDITORE

Sur è una casa editrice indipendente fondata da Marco Cassini nel 2011. Il nome fa riferimento sia al Cono Sur (la parte più meridionale dell’America Latina) sia alla famosa rivista letteraria fondata a Buenos Aires nel 1931 da Victoria Ocampo, in cui scrissero Adolfo Bioy Casares, Octavio Paz e Silvina Ocampo, autori che a distanza di ottant’anni non a caso oggi fanno parte del catalogo di Sur.

Sur nacque da una ricerca volta ad allargare i confini del catalogo di un’altra grande casa editrice indipendente, Minimum fax. L’intento era all’inizio quello di creare soltanto una nuova collana. In quel periodo, infatti, si avvertiva una certa stanchezza nel mondo editoriale per le proposte letterarie che arrivavano dagli Stati Uniti e sembrava che quel filone si stesse esaurendo. Marco Cassini, che allora faceva parte di Minimum fax, si rese conto che l’editoria italiana sembrava invece essersi dimenticata della letteratura latinoamericana.

Dopo due anni di ricerche, viaggi e incontri con editori argentini, messicani, cileni e colombiani, Marco Cassini si accorse di avere tra le mani un progetto così grande che non poteva ridursi a una semplice collana. Fu così che Sur divenne la prima casa editrice italiana interamente dedicata alla letteratura latinoamericana.

Sur ha portato una ventata d’innovazione anche per quanto riguarda il funzionamento dell’editoria, proponendo un rapporto diretto con i librai indipendenti, senza la mediazione della distribuzione. Questo nuovo modello di distribuzione è anche una scelta politica, volta a sottolineare l’importanza dei librai, spesso stritolati da logiche commerciali che li costringono a chiudere. In questo modo, la fetta del prezzo di copertina che normalmente va al distributore viene assegnata alla libreria.

Nel 2015 Sur ha inaugurato una nuova collana, Big Sur, dedicata alla letteratura angloamericana. Il nome Big Sur richiama la località della California amata da molti scrittori statunitensi come Lawrence Ferlinghetti, Henry Miller e, ovviamente, Jack Kerouac, che a Big Sur ha ambientato l’omonimo romanzo. Il Sud di questa casa editrice, quindi, non è solo un confine geografico, ma un modo di vedere il mondo.

RADUAN NASSAR: IL PIÙ GRANDE SCRITTORE BRASILIANO INATTIVO

Nassar nacque nel 1935 a Pindorama, una piccola cittadina rurale nello stato di São Paolo, settimo di dieci figli di una coppia di immigrati libanesi. Il padre era cristiano ortodosso, la madre protestante. Fecero crescere i loro figli in un piccolo fazzoletto di terra dove coltivavano arance, ciliegie e jabuticaba2 e allevavano conigli e uccelli. Raduan era un giovane irrequieto: s’iscrisse a Lettere, che abbandonò per iscriversi a Giurisprudenza, e infine a Filosofia, il corso che finalmente concluse.

Fondò con i suoi fratelli un giornale, Jornal do Bairro, che si opponeva al regime militare dell’epoca e s’identificava con i gruppi minoritari. Di quel periodo, ricorda che essere redattore del giornale lo aiutò a soppesare ogni parola scritta, e anche a sbloccare parte della sua timidezza. Ma, soprattutto, lo aiutò a sbloccarsi come scrittore.

Ma anche quest’esperienza finì, a causa di una violenta divergenza con il fratello maggiore. Così, a 37 anni, Nassar si ritrovò senza impiego. Si chiuse nel suo appartamento di São Paolo, lavorando dodici ore al giorno su un libro e, come disse, “piangendo tutto il tempo”.

Così, da una porta sbattuta e una sorta di vendetta nei confronti del fratello maggiore, nacque nel 1975 Il pane del patriarca. Il romanzo fu immediatamente un successo in Brasile, vincendo il Prêmio Jabuti de Literatura (che è l’equivalente brasiliano del nostro Premio Strega). Nel 1978 uscì il secondo romanzo, Un bicchiere di rabbia, che vinse il premio conferito dalla Associação Paulista de Críticos de Arte. Questi due libri ebbero un impatto enorme nella letteratura brasiliana, tanto che il critico Antonio Fernando de Franceschi li definì «piccole rocce dure. È tutto concentrato lì dentro».

Negli anni ’80, quindi, con soli due libri che insieme avevano meno di 300 pagine, Nassar era già considerato uno dei più grandi scrittori brasiliani, al pari di Clarice Lispector e João Guimarães Rosa. La stessa Carmen Barcells – geniale agente letteraria che si considera responsabile del Boom latinoamericano degli anni ’60 e ’70 in Europa, ve ne parlo qui – lo aveva adocchiato, aspettandosi grandi cose da lui.

Ma nel 1984, al culmine della sua fama, Raduan Nassar annunciò il suo ritiro. Voleva dedicarsi all’agricoltura. L’opinione pubblica rimase scioccata. Molti continuarono a pensare che non fosse vero, e che lui nascondesse storie e poesie nei suoi cassetti. Le case editrici continuavano a contattarlo per avere questi suoi inediti. Lui insisteva che l’agricoltura era sempre stata l’occupazione principale della sua famiglia, e la scrittura era solo un’attività secondaria.

All’improvviso ho capito che mi piacevano le parole, che volevo lavorare con le parole. Non solo con il guscio, ma anche con il tuorlo. Come inizia questa passione e perché finisce, non lo so. La mia testa non è più lì, qualunque cosa gli altri pensino non m’interessa. Con questi discorsi fate di me il becchino di me stesso, il becchino che scava le proprie ossa, mi sento anche male a parlare di queste cose. […] Oggi la mia vita è fare, fare, fare all’interno della fattoria, ovviamente in uno spazio in costante trasformazione, che è ancora un altro modo di scrivere. 3

Raduan Nassar è stato uno scrittore impossibile da inserire in qualsiasi corrente letteraria: la densità dei suoi dialoghi, l’energia dissacrante concentrata in ogni frase, il lavoro linguistico quasi da orafo che c’è su ogni parola, il suo essere ai confini non solo della poesia ma anche della mitologia greca e dei testi sacri; tutto questo fa di lui uno scrittore unico. Lui stesso si definiva un “parallelepipedo lirico”.

Che cos’è successo, allora? Non lo sapremo mai. Possiamo solo fare delle ipotesi. Luiz Schwarcz, fondatore della più grande casa editrice brasiliana, Companhia das Letras, pensa che la decisione di Nassar sia dovuta non tanto alla fine di una passione, quanto a un eccessivo perfezionismo. Per Antonio Fernando de Franceschi, Nassar è uno scrittore che “spreme troppo le parti di sé stesso che non ama”. Emanuele Trevi, nella bellissima prefazione che ha scritto per l’edizione pubblicata da Sur, crede che “in quelle poche decine di pagine Nassar abbia centrato ed esaurito il suo bersaglio, senza bisogno di aggiungere altro”.

Forse, aggiungo io umilmente, la sua scrittura così potente e intima lo aveva prosciugato e temeva di poter scrivere solo banalità. Il suo perfezionismo non glielo avrebbe mai permesso.

Dopo aver abbandonato la scrittura, Nassar acquistò una fattoria nel sud dello stato di São Paolo e iniziò ad allevare animali e a coltivare riso, soia, mais e fagioli. Nel 2011 abbandonò anche questo, donando i suoi 640 ettari di terreno all’Università Federale di São Carlos, per farli diventare un centro dedicato allo studio dei bisogni rurali della comunità. Oggi vive nella città di Buri, in un’austera casa con pochi mobili e pochi libri, per lo più regalati. “Dico alla gente che non leggo più, ma nessuno mi crede”, ha dichiarato.

Nel 2017 ha ottenuto il premio Camões, che ogni anno il governo brasiliano e quello portoghese assegnano alle opere di spicco in lingua portoghese. Durante la cerimonia di premiazione, Nassar si è scagliato duramente contro l’allora presidente Michel Temer (arrestato poi per corruzione), accusandolo di avere instaurato un governo oppressivo, che ha fatto precipitare il Brasile in “tempi molto bui”. Le reazioni non si sono fatte attendere, il ministro della cultura Roberto Freire si è affrettato a confutare le parole di Nassar dicendo che una dittatura non concede premi agli oppositori politici.

“Non posso stare zitto”, ha detto Nassar a conclusione del suo discorso. Ma solo di politica vuole ancora parlare. Quando gli viene chiesto, a distanza di anni, il motivo dell’abbandono della letteratura, usa invece parole di altri: «Ho rinunciato a scrivere perché c’è un eccesso di verità nel mondo»4.

LA TRAMA E LO STILE

Su Il pane del patriarca, lo scrittore portoghese Bruno Vieira Amaral ha scritto: “ha la forza primordiale di un testo biblico e l’inventiva linguistica di uno scrittore moderno”.

Questo romanzo è, in effetti, arcaico e al tempo stesso atemporale e fa convivere elementi apparentemente antitetici, come tabù e trasgressione, famiglia e desiderio, morale e nichilismo. Semplificando molto, potremmo definirlo una versione cupa della parabola biblica del Figliol Prodigo, dove la parabola però è solo un pretesto, un punto di partenza per un’intensa analisi sul rapporto conflittuale tra generazioni diverse.

Il protagonista del romanzo è André, un ragazzo che vive in una fazenda insieme alla numerosa famiglia di origine libanese. La sua vita è scandita dal duro lavoro nei campi e da un rituale silenzioso a cui il padre ogni giorno sottopone l’intera famiglia durante i pasti: l’ascolto di lunghi sermoni, volti a far assimilare ai figli i valori di umiltà, moderazione, pazienza e controllo sulle passioni:

E il padre a capotavola fece la pausa abituale, breve, intensa, perché misurassimo in silenzio la rustica maestosità del suo atteggiamento: il petto di legno sotto un panno spesso e pulito, il collo solido a sostegno di un capo grave, e le mani dal dorso largo che afferrano ferme il bordo della tavola come se afferrassero la ringhiera di un pulpito. […] Era proprio a tavola, più che in qualunque altro luogo, che facevamo a capo chino il nostro apprendistato di giustizia.5

La famiglia è conforto ma anche prigione e, come dice André in una frase che ho subito sottolineato a matita, “anche l’impazienza ha i suoi diritti!”.6 André lascia la fazenda, i suoi diciassette anni gli impongono di vivere, di sentire le passioni che il padre condanna. Diventa così il figlio perduto.

Molti critici hanno visto in questo mondo familiare dominato dalla prevaricazione paterna una rappresentazione simbolica della dittatura brasiliana, e la fuga di André diventa quindi in quest’ottica una ribellione contro il pensiero unico imposto dalla giunta militare per ben 21 anni (dal 1964 al 1985).

ll romanzo comincia con il fratello maggiore Pedro, futuro erede di quel pater familias biblico e dei suoi insegnamenti, che va a cercare la pecorella smarrita. Ritrova André in una stanza che oscilla tra il reale e il metafisico, in preda a una sorta di fervore liberatorio e sensuale. Pedro cerca di calmare quel fratello che è sempre stato dotato di una sensibilità morbosa, lo rimprovera, lo ricatta facendogli presente la sofferenza che ha causato ai genitori.

Ma la fuga di André non è dovuta soltanto al rifiuto delle regole asfissianti e della fatica del lavoro nei campi. All’origine del suo gesto non c’è soltanto la convinzione che il corpo realizzi la sua libertà solo quando trasgredisce. C’è molto di più. E André riesce a confessare al fratello Pedro il vero motivo del suo tormento solo dopo essersi ubriacato. Assistiamo allora all’orrore di Pedro e alla decisione di riportare indietro quel fratello “scellerato”, che ci appare esteriormente più docile, ma intimamente disperato.

Il sollievo della famiglia al ritorno di André non riesce a mascherare però il disagio e l’imbarazzo. I genitori sono improvvisamente invecchiati, non trovano le parole per accogliere e capire quel figlio che non riesce più ad adattarsi a quella vita.

Non ci si può aspettare da un recluso che serva volentieri in casa del carceriere7.

I rapporti spezzati non si ricomporranno più, e la festa organizzata per celebrare il ritorno del figliol prodigo si concluderà con una macabra deflagrazione.

Ed è così che bisogna leggere Il pane del patriarca, così come è stato scritto: come se fosse un’esplosione. La forza creativa che c’è dietro questo romanzo è talmente intensa e ancestrale, nasce, cresce e muore in maniera così deflagrante che esige la stessa intensità da parte del lettore.

La scrittura di Nassar non concede pause, ci sono pochissimi punti posti sempre a fine capitolo, veniamo trascinati in un vortice di desiderio e castigo, di sesso e religione, di angoscia e di estasi. Nassar inventa un linguaggio lirico e sensuale, ci scaraventa nel delirio della mente di André.

Questo romanzo non sembra scritto ma scolpito, come se fosse una nuova Sacra Scrittura che predica la rivolta dionisiaca del corpo contro la negazione dei sensi e della passione.

PER APPROFONDIRE

Da questo romanzo è stato tratto un film nel 2001, intitolato Lavoura arcaica e diretto dal regista brasiliano Luiz Fernando Carvalho. Il film ha vinto circa trenta premi internazionali e la particolarità sta nel fatto che non si basa su un copione: Carvalho ha dichiarato che il suo film è stata una “reazione” al romanzo e non un adattamento. C’è un uso barocco della luce, immagini potenti e dialoghi poetici e fedeli al romanzo. Vi avverto: è un film lungo e lento, ma se amate il cinema di Terrence Malick e di Pasolini vi piacerà. Se vi va di vederlo, vi lascio il link. Purtroppo si trova solo in portoghese con i sottotitoli in inglese.

Spero di avervi fatto conoscere qualcosa in più sulla meravigliosa letteratura brasiliana, che è davvero troppo bistrattata in Italia, purtroppo. Io mi sono appassionata tantissimo mentre scrivevo quest’articolo e mi è venuta un’idea: contattare uno dei più esperti brasilianisti in Italia, Daniele Petruccioli. Ne è nata una bellissima intervista, che potete leggere qui.

Infine, grazie davvero a Sur per il prezioso lavoro di recupero e promozione che fa da anni sulla letteratura latinoamericana.

Fatemi sapere cosa ne pensate nei commenti, o scrivendomi se vi va qui.

Un abrazo fuerte, vi auguro delle vacanze ricche di bellissime letture e ci risentiamo a fine agosto!

  1. Se v’incuriosiscono queste storie di rinuncia alla scrittura, vi consiglio un piccolo libro pieno di aneddoti raccontati con brio e ironia: Bartleby e compagnia dello scrittore spagnolo Enrique Vila-Matas. ↩︎
  2. È un albero stranissimo i cui frutti, simili a grappoli d’uva nera, crescono direttamente sul tronco. Cresce solo in Brasile. Se siete curiosə, potete vedere una foto qui. ↩︎
  3. Parole che ha pronunciato in questa rara intervista del 1996 per Cadernos de Literatura Brasileira. È in portoghese ma potete facilmente tradurla con Google translate. ↩︎
  4. Frase attribuita al filosofo e psicoanalista austriaco Otto Ranke. ↩︎
  5. Il pane del patriarca di Raduan Nassar, edizioni Sur, 2019. Pagg. 60 e 72. Vi consiglio caldamente di leggere il sermone del padre sul tempo alle pagg. 52-54. È un capolavoro. ↩︎
  6. Il pane del patriarca di Raduan Nassar, edizioni Sur, 2019. Pag. 82. Non so voi, ma mi sono rivista tantissimo in questa frase. ↩︎
  7. Il pane del patriarca di Raduan Nassar, edizioni Sur, 2019. Pag. 143 ↩︎

2 Comments

  • Roberto

    Ho buttato via il machete, come da consiglio, e mi inoltrerò in questa foresta letteraria.
    Scherzi a parte, la scarsa punteggiatura crea con il lettore una forte empatia perché si trova immerso nel testo.
    Grazie per il consiglio
    Sarà una delle prossime letture

    • Rocío

      Molti non apprezzano la mancanza di punteggiatura, è bello sentire tutte le “campane”, a te invece piace la prosa scritta in questo modo e non ti sembra respingente. Che interessante il tuo punto di vista, grazie per il commento! Fammi sapere cosa ne pensi quando lo leggerai.

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Scopri di più da Clavel del aire

Abbonati ora per continuare a leggere e avere accesso all'archivio completo.

Continua a leggere