“LASCIA FARE A ME” DI MARIO LEVRERO
Inizio quest’articolo con una nota personale, che spiega anche il perché della lettura che vi consiglio questo mese. È stato un anno molto pesante per me questo 2024, e non potevo raccontarvi nulla per un semplice motivo, avevo il terrore di fallire. Avete presente quando raccontate a tutti che state lavorando sodo per un progetto, che ci state mettendo corpo e anima e siete talmente entusiastə che lo dite ai quattro venti, ma poi fallite? E tuttə vi chiedono “allora, com’è andata poi quella cosa?” e voi vi vergognate di dire che non ce l’avete fatta? Ecco, io non l’ho mai detto in tutto quest’anno perché avevo il terrore di non farcela.
E allora a testa bassa e in silenzio ho svolto il mio normale lavoro di 40 ore alla settimana, mi sono organizzata per gestire al meglio questo blog e la newsletter, e ho studiato tutto quello che potevo. Studiavo nel weekend, la sera dopo 8 ore di lavoro, la mattina presto, durante le vacanze di Natale e le ferie estive. Io ho un grandissimo sogno, qualcosa che ho sempre desiderato con tutte le mie forze: lavorare in editoria.
Andavo alle fiere e vedevo gli editori e il personale delle case editrici e mi sembrava che facessero il lavoro più bello del mondo, volevo essere come loro. Ma mi sembrava impossibile per me. So bene quanto sia difficile entrarci, quante competenze servano, quanto studio mi manca.
Non sapevo come fare. Mi ci sono voluti anni di lavori qualsiasi fatti per campare, mentre sognavo, compravo libri, studiavo, facevo tanti corsi, iniziavo questo blog e poi la newsletter. Sono arrivata a un punto in cui la scissione tra quello che facevo per vivere e pagare le bollette e quello che volevo davvero essere era diventata troppo dolorosa. Ero molto infelice, frustrata, mi sentivo in gabbia.
Questo blog mi salvava, un pochino ogni mese. Finché non ho deciso l’anno scorso di prepararmi per il test del Master in editoria della Fondazione Mondadori. Sapevo che lavorando era molto difficile: la bibliografia è lunga e il test di ammissione è tosto, ogni anno si presentano un centinaio di persone e ne rimangono solo 26.
Sapevo che forse non sarei sopravvissuta emotivamente a un altro tentativo fallito, e poi non sono più una ragazzina che può tentare e fallire mille volte. Ma mi sono data un’ultima possibilità, se avessi fallito anche stavolta avrei messo da parte lo “stupido” sogno dell’editoria. Ho studiato per un anno, ne sono uscita fisicamente distrutta, ma finalmente posso dirvelo: SONO STATA AMMESSA AL MASTER!!
Quest’ultimo mese di ottobre, tra la prova scritta e l’orale, ho sofferto molto di ansia. Avevo bisogno di un libro diverso da quelli che vi ho proposto finora, un libro più leggero, che mi strappasse una risata ma che non fosse banale. È una combinazione difficilissima da trovare, ci vuole un talento enorme per riuscirci. Ci vuole uno scrittore come Mario Levrero.
VI PIACERÀ SE
V’intriga leggere un’avventura rocambolesca e di chiara ispirazione kafkiana, in cui il protagonista è – suo malgrado – un detective inetto che sovverte in chiave parodica tutti i cliché del romanzo poliziesco classico.
L’EDITORE
Questo romanzo indefinibile è un altro dei gioielli riscattati dall’oblio da La Nuova Frontiera, casa editrice di cui già vi avevo parlato qui. L’opera di Levrero era arrivata in Italia nel 2014, pubblicata dalla casa editrice Calabuig (un ramo di Jaca Book).
Dopo la pubblicazione in sordina di Il romanzo luminoso (2014) e di Nick Carter si diverte mentre il lettore viene assassinato e io agonizzo (2016), Calabuig cessò purtroppo la sua attività e non si parlò più di Mario Levrero fino al recupero da parte di La Nuova Frontiera. Speriamo che, dopo Lascia fare a me (2018) e La città (2020), la casa editrice romana porti prima o poi in Italia tutta l’opera di un autore diventato ormai di culto anche fuori dai confini dell’Uruguay.
L’AUTORE
Il critico letterario uruguaiano Ángel Rama coniò l’epiteto di “escritores raros” (scrittori strani) per un gruppo di autori e autrici uruguaiani che non riusciva a classificare: Felisberto Hernández (pubblicato in Italia da La Nuova Frontiera e Rayuela Edizioni), Armonía Somers (pubblicata da Ventanas), José Pedro Díaz e, appunto, Mario Levrero. Questi però non erano nemmeno un gruppo con un’estetica definita o un manifesto letterario, semplicemente erano accomunati da un certo gusto per il surrealismo.
Probabilmente questa è stata la condanna di Mario Levrero, in un certo senso. I critici letterari si ostinavano a classificarlo senza comprendere il suo universo letterario, e finirono per marchiarlo comodamente come un “autore fantastico”. Levrero detestava questa definizione, non ammetteva che si facesse una distinzione netta tra un mondo esteriore oggettivo e un mondo interiore che per forza doveva essere irreale e fantastico.
È davvero necessario classificare tutto per provare a comprenderlo?
Mario Levrero è inclassificabile già dalla sua biografia: è stato fotografo, libraio, appassionato di ipnosi e fenomeni telepatici, sceneggiatore di fumetti, direttore di riviste di enigmistica, avido lettore di romanzetti gialli. La scrittrice uruguaiana Fernanda Trías lo ha definito così:
Lo scrittore di culto, il fanatico dei generi minori, l’eremita, il maestro degli aspiranti scrittori, lo strano, il fobico, il lettore generoso, la figura mitica, il fenomeno letterario.
Jorge Mario Varlotta Levrero nacque a Montevideo il 23 gennaio del 1940. Suo padre era commesso per la prestigiosa catena di negozi London-París, nell’area dedicata ai clienti stranieri, e la sera dava ripetizioni di inglese. Non fu molto presente nella vita del figlio anche emotivamente: quando Mario gli disse che avrebbe voluto fare lo scrittore, il padre rispose che quella era “una cosa da omosessuali”.
La madre gestiva una piccola libreria di riviste e libri usati, dove Mario passava interi pomeriggi servendo i clienti o, più spesso, facendo la siesta nel retro. Quando Mario aveva tre anni, gli fu diagnosticato un soffio al cuore e i medici consigliarono ai genitori di tenere il figlio lontano da attività fisica e movimento per evitare complicazioni. Fu forse questo ad avvicinarlo alla lettura in tenera età, ma anche a farlo adottare lo stile di vita totalmente sedentario che mantenne fino alla fine dei suoi giorni.
Questo riposo forzato fu l’origine del suo peculiare sguardo verso la propria interiorità, più volte raccontato da lui stesso così:
Il tema della percezione del mio corpo è molto antico, ha origine dall’immobilità forzata che ho dovuto osservare dai tre fino agli otto/nove anni. In quel periodo imparai a separarmi dal mio corpo e a vivere dentro la mente.1
Fu un uomo eccentrico che dedicò gran parte del suo tempo a leggere romanzetti polizieschi di pessima qualità e a dormire quando il resto delle persone si alzava per andare a lavorare. Fu povero per gran parte della sua vita ed era pieno di fobie e ossessioni (aveva paura di sbattere con gli angoli dei mobili, non sopportava il profumo delle donne, credeva che l’odore della carta vecchia dei romanzetti pulp che leggeva creasse dipendenza); in età matura quasi non usciva di casa e fumava una sigaretta dietro l’altra, senza mai togliersi le sue canottiere bianche. I suoi miti erano Kafka e Raymond Chandler.
Scriveva ossessivamente, per salvarsi l’anima. La sua ultima moglie, Alicia Hoppe, disse di lui:
Quando l’ho conosciuto, si sentiva profondamente solo, viveva molto angosciato e ha sempre avuto un’enorme incapacità per la vita pratica. Nonostante questo, aveva un grande carisma e un potente senso dell’umorismo, a volte però molto nero. Più che uno scrittore, era una persona che salvava la sua vita scrivendo. Scrivere per lui non era un lavoro, ma qualcosa di più drammatico. Scriveva per connettersi con sé stesso. C’è chi lo fa camminando o ascoltando la musica, lui scriveva.
Scrisse una ventina di opere tra romanzi, racconti, fumetti e articoli di giornale, opere in cui mescola immaginazione, sperimentazione e sottogeneri letterari (fantascienza e poliziesco) con la propria vita. La sua produzione si può dividere tra raccolte di racconti surreali e kafkiani (La máquina de pensar en Gladys, Espacios libres), romanzi altrettanto fantastici e surreali (La città2, El lugar, París), autofiction (Il discorso vuoto, Il romanzo luminoso) e la parodia dei romanzi polizieschi (Lascia fare a me, La banda del ciempiés).
Visse a Montevideo quasi tutta la sua vita, tranne un breve periodo a Buenos Aires e a Bordeaux. Nessuno dei lavori che svolse durante la sua vita fu abbastanza stabile o redditizio da permettergli di mantenersi, per cui la sua sussistenza dipese in gran parte dall’aiuto economico di famigliari e amici. Lui stesso preferiva rimanere nel suo isolamento, non cercava nessun tipo di promozione delle sue opere e aveva un rapporto difficile con gli editori. Il suo unico scopo era raggiungere i lettori che davvero fossero interessati alla sua opera: “Arrivare a 200 lettori” diceva, “con questo sono a posto”.
La scrittura di Levrero si basa sulla ricerca spirituale e la costruzione dell’io, mescola realtà e sogno al punto che a volte si confondono e diventa impossibile distinguere l’una dall’altro. La sua letteratura non era connessa al periodo storico in cui visse e alle correnti di pensiero dell’Uruguay degli anni ’60 e ’70, attraversato dalla crisi politica e la Guerra Fredda. Lui sembrava fare a meno della realtà che lo circondava; per questo fu ignorato dai suoi contemporanei ma viene tanto celebrato oggi, proprio perché la sua opera ha avuto il merito di parlare delle inquietudini e di stabilire un rapporto di empatia con una generazione che in quel momento ancora non esisteva: la nostra.
Nel luglio del 2003, il suo corpo cominciò a dare i primi segni di cedimento. Soffriva di ipertensione, era sedentario e fumava da quando aveva 14 anni. Trascorse dieci giorni ricoverato in ospedale e i medici gli dissero che l’unica speranza era un’operazione al cuore, ma lui si rifiutò. Anche se non stavano più insieme, scelse Alicia Hoppe come sua unica esecutrice testamentaria, e affidò a lei la gestione delle sue opere. Morì il 30 agosto del 2004, a soli 64 anni.
LA TRAMA
«È un buon romanzo» disse il Ciccione, facendo una pausa ad effetto. «Ma…»
Avrei potuto immaginarmelo, perché so da qualche anno che i miei romanzi appartengono a questo genere: buoni ma… I critici si arrovellano per classificare la mia letteratura in questa o quell’altra categoria, ma gli editori sono più realisti, e unanimi; c’è una sola categoria possibile per la mia letteratura: buona, ma…
Alzai una mano come se dovessi fermare il traffico.
«Perfetto» dissi. «Ho già capito. Risparmiati il sermone.»3
Questo è l’incipit di Lascia fare a me, e già da queste prime righe si può cogliere l’ironia malinconica che caratterizzerà tutto il romanzo. Il narratore senza nome ha molti aspetti in comune con lo stesso Mario Levrero: le difficoltà economiche, le paranoie, la sensazione di sentirsi sempre fuori luogo, il fatto di essere entrambi scrittori al margine del mondo editoriale, che pretende da loro testi più vendibili e convenzionali.
Ma, mentre Levrero si vede costretto nella vita reale ad accantonare la scrittura per fare diversi lavoretti che gli permettano di campare, il narratore di Lascia fare a me riceve dall’editore in questione una proposta particolare: trasformarsi in un improvvisato detective per scovare un certo “Juan Pérez”, autore misterioso di un manoscritto arrivato in redazione che ha subito conquistato tutti. Il manoscritto, a detta dell’editore e di una fantomatica fondazione svedese che vorrebbe pubblicarlo, è un vero capolavoro e contiene tutto ciò che ci si aspetta da un autore latinoamericano che ha vissuto in un paese represso da una dittatura: lotta armata, impegno, riflessioni politiche, denuncia sociale. Altro che i romanzi che scrive il nostro protagonista…
Il “Ciccione” (nomignolo che il narratore usa per indicare l’editore), pur non pubblicando il romanzo del nostro protagonista, gli offre comunque una possibilità di guadagno: se riuscirà a rintracciare Juan Pérez, che ha spedito il romanzo dalla sperduta cittadina di Penuria, otterrà una ricompensa di ben duemila dollari. Il nostro protagonista, squattrinato e senza alternative, decide di accettare e parte per questa strana cittadina dell’entroterra uruguaiano con un anticipo di duecento dollari.
Inizia un’avventura strampalata, in cui il nostro inetto detective si troverà ad arrancare tra le strade polverose e roventi di Penuria, dove la malinconia di Raymond Chandler si mescola al surrealismo di Kafka e vediamo comparire personaggi grotteschi, alberghi strani, indizi che il nostro protagonista non coglie, una femme fatale (tipica dei polizieschi) che lo seduce, in un continuo divagare che lo porta ad allontanarsi sempre più dall’indagine.
Lascia fare a me è un libro divertentissimo e amaro, inclassificabile in quanto prende gli elementi tipici dei romanzi hard-boiled e ne fa una parodia, ma non solo: ci sono momenti in cui affiorano visioni oniriche che dissolvono la soglia tra realtà e sogno, personaggi descritti con un’ironia sorniona che depistano il protagonista e divertono il lettore, ma tutto ciò delinea sempre di più un cerchio impossibile da chiudere, come se alla fine quella confusa ricerca fosse un’amara metafora della vita.
Per questo mi sento di dire che Lascia fare a me è solo in apparenza un libro divertente e spensierato. Il protagonista apatico e disorientato, che suscita nel lettore tenerezza ed esasperazione allo stesso tempo, forse è in realtà simile a tuttə noi, che vaghiamo nelle strade polverose della vita tra depistaggi e distrazioni alla ricerca di qualcosa che ci sfugge sempre.
L’APOLOGIA DELL’OZIO
Tutta la vita di Mario Levrero può essere considerata un’apologia dell’ozio: per lui l’ozio è l’unica cosa che ci conferisce umanità e ci rende esseri dotati di un’anima. L’ozio per lui è una forma di ascetismo, l’unico cammino possibile per avvicinarsi a sé stessi. In un’intervista disse:
Il fatto è che bisogna produrre. Come dice Foucault, la società ha trasformato il tempo della vita in tempo del lavoro, e il tempo del lavoro in tempo di produzione di beni materiali. Viviamo in una società che ha distorto completamente la natura dell’uomo.
È questa ricerca di una verità personale, la volontà di andare contro il senso comune e di essere fedele al proprio progetto letterario che spiega l’originalità e la forza dell’opera di Mario Levrero. Non leggiamo Mario Levrero, ma creiamo una relazione di empatia con lui.
La sua vita si sorreggeva su una struttura economica precaria, era come un equilibrista: piccoli prestiti, somme che entravano sporadicamente per qualche collaborazione che faceva, l’aiuto degli amici. Si era abituato a vivere con pochissimo, e il suo conflitto con il concetto del denaro era in realtà un conflitto filosofico che riguardava il tempo: ogni ora di lavoro retribuito era un ostacolo al tempo che poteva dedicare alla scrittura.
In Il discorso vuoto, disse a questo proposito:
Non so cosa mi turbi di più, se il fatto di non avere un lavoro o lo sguardo delle persone che mi circondano, gente che in un modo o nell’altro – tramite gesti o commenti – mi fa sentire che sbaglio, che sono diventato sospettoso.
Ma disporre di denaro o guadagnarlo lo rende sospettoso di fronte a sé stesso, perché anche se riconosce che il benessere materiale, il fatto per esempio di “avere un frigorifero” sia una forma di salute, è convinto che sia anche una forma di malattia dato che per lui godere di questi beni materiali ha un prezzo atroce: l’allontanamento da sé stesso. Questa ricerca di libertà e questa resistenza al mondo materiale è, in tutta l’opera di Levrero, velata di malinconia; un malessere che però non diventa mai palesemente depressione grazie a un senso dell’umorismo sornione che ci rende sempre partecipi e complici dell’universo levreriano.
PER APPROFONDIRE
Vi lascio come sempre qualche link o risorsa in più se vi ha affascinato la figura e l’opera di Mario Levrero:
- Un’interessante articolo di Elisa Tramontin, la traduttrice di Lascia fare a me, che racconta le difficoltà e le sfide che ha incontrato durante la traduzione.
- Qui c’è un’intervista (in spagnolo) realizzata a Levrero da Christian Arán, un alunno dei corsi di scrittura che Levrero teneva ogni tanto per racimolare qualche soldo. Le sue risposte sono sempre piene di autoironia, come quando dice: “In quel periodo vivevo senza il frigorifero. Ed era meglio così perché dovevo andare a comprare la carne tutti i giorni e questo mi costringeva a camminare, che è sempre un buon esercizio. Quindi la mia situazione economica era equilibrata, ma con un equilibrio sul bordo dell’abisso”.
- Qualche mese fa l’editore Random House ha pubblicato un libro postumo, Cartas a la princesa (Lettere alla principessa), una raccolta di 59 lettere d’amore che Mario Levrero scrisse ad Alicia Hoppe tra il 1987 e il 1989, periodo in cui lui viveva a Buenos Aires e lei a Colonia (Uruguay) e stava iniziando la loro relazione. Alicia era stata la moglie di un vecchio amico di Levrero, ed era diventata prima la sua psichiatra e poi sua moglie. Queste lettere mostrano la nascita e la maturazione del loro amore e sono anche un registro letterario delle ossessioni e dell’instabilità emotiva di Levrero, una continuazione della sua “letteratura dell’io”, in cui l’amata interlocutrice diventa uno specchio per proiettare paure e frustrazioni e capire sé stesso. In una di queste lettere, per esempio, Levrero si chiede: “Perché sono così stanco, se il mio lavoro è leggero come portare una piuma sul cappello? Risposta: mi stanco perché sono teso, e sono teso perché sto mantenendo una personalità artificiale al lavoro. Questo mi provoca un logorio nervoso e muscolare paragonabile al caricare una dozzina di tronchi”. In occasione della pubblicazione di questa raccolta, Alicia Hoppe ha rilasciato un’intervista che potete ascoltare qui (in spagnolo).
Vi ringrazio per avere letto fino a qui e vi ricordo che potete anche seguirmi su Substack, dove ogni mese esce una nuova puntata della newsletter Sudestada. Mi trovate anche su Instagram, dove pubblico contenuti ogni settimana e vi racconto curiosità, personaggi letterari e recensioni di libri.
Un abrazo, ci ritroviamo qui verso dicembre e chissà dove ci porterà il prossimo viaggio!