L’arte di Coco Cano: un soffio di colore dall’Uruguay
Coco Cano fa parte della storia di questo blog fin da prima che fosse online, per questo sono davvero felice di intervistarlo. Tutto è cominciato quando stavo cercando una grafica che rappresentasse subito al primo sguardo che cos’è Clavel del aire e cosa voglio comunicare con questo progetto.
Una scelta difficilissima, racchiudere una passione in un’immagine. Dopo mesi di ricerche, mi sono imbattuta per caso nel sito di Coco Cano, e la forza dirompente dei suoi colori mi ha travolta. Il pittore francese Paul Gauguin diceva che il colore è il linguaggio dei sogni, credo non ci sia una migliore definizione di ciò che Coco fa con la sua arte.
Mi sono innamorata di un disegno che aveva realizzato per il giornale Sottosopra nel 1988, con dei colori squillanti che trasmettevano tanta gioia e voglia di vivere. Ho pensato che i colori potessero essere un rifugio in quei giorni in cui tutto è grigio per me, e non capisco dove sto andando e cosa sto facendo della mia vita. Il colore come un modo per riconnettersi ai propri desideri, una strada per casa.
Così gli ho scritto per chiedergli il permesso di usare l’immagine, e da lì è nato quasi un rapporto epistolare. Coco Cano non è solo un artista dalla sensibilità unica, ma anche un uomo che ha vissuto mille vite e attraversato tante difficoltà, sapendo però sempre ricavare da ogni grigio un colore squillante e vivo.
BREVE BIOGRAFIA DI COCO CANO
Nilo Maria Cano Correa dei Paiva, da tutti noto come Coco Cano, nacque a Montevideo (Uruguay) nel 1952. Suo padre era un pianista catalano di jazz, sua madre era portoghese. Frequentò l’Accademia Nazionale delle Belle Arti di Montevideo e nel 1970 aprì il Taller Tacuabè, un laboratorio sperimentale per fare ricerche creative in svariati campi, dalla ceramica al cuoio, dal legno alla carta pesta e i tessuti, fino alla grafica e la pittura.
Poi si dedicò alla tessitura con il telaio creando un piccolo atelier, Telar, ispirandosi alla tradizione indigena sudamericana. Nel 1973, come molti dissidenti politici, Coco Cano fu costretto all’esilio per non essere l’ennesimo desaparecido della dittatura instaurata da Juan Maria Bordaberry.
La fuga dal suo paese lo portò prima a Buenos Aires e poi nel 1976 in Europa. Visse a Barcellona per un tempo, ma il suo desiderio di esplorare e conoscere lo portò in Francia, in Olanda, in Germania e infine approdò in Italia. A Torino gli fu offerto un lavoro come musicista, iniziò a studiare fotografia e tecniche di stampa e conobbe Giuliana, che sarebbe diventata sua moglie.
Come racconta in un’intervista, lui e Giuliana cominciarono a cercare alloggio per vivere insieme, ma scoprirono ben presto che a Torino nessuno affittava un appartamento ai meridionali e agli stranieri come lui. Allora si spostarono a Carmagnola, dove Coco vive da quarant’anni ed è persino stato Assessore alla Cultura e Comunicazione. Il suo impegno civico per la città è stato riconosciuto e apprezzato negli anni dai carmagnolesi, Coco si è dato molto da fare per recuperare il centro storico, ha portato in città una mostra di Picasso e ha coordinato la Civica Galleria d’Arte Contemporanea di Carmagnola.
Oggi continua a dipingere nel suo studio a Carmagnola e organizza molti laboratori con le scuole perché, come dice, “i bambini sono un’esplosione di fantasia e lavorare con loro dà un’energia indescrivibile”. Negli anni, il suo stile è diventato inconfondibile: segni netti, toni accesi, la simbologia sudamericana che si fonde con il paesaggio collinare delle Langhe piemontesi che lui tanto ama.
Nemmeno il settore editoriale è rimasto indifferente all’energia travolgente della sua arte, tanto che negli anni Coco ha illustrato libri per bambini e, soprattutto, ha disegnato per l’editore Sur le copertine dei libri dello scrittore uruguaiano Eduardo Galeano, suo grande amico.
BREVE STORIA DELL’URUGUAY
Ci sono amori che, nonostante ci causino dolore, non smettono mai di bruciare. Questo è il caso di Coco Cano con il suo paese natale.
L’Uruguay è un piccolo paese incastonato tra Argentina e Brasile, da sempre abituato a fare compromessi per non essere schiacciato dai giganti con cui confina. «Siamo argentini col valium» diceva Galeano, e lo stesso Coco conferma quest’attitudine pacata degli uruguaiani rispetto ai vicini: «siamo riservati, più piemontesi dei nostri vicini, ecco perché mi trovo così bene a Carmagnola!».
Un detto nazionale recita: «i messicani discendono dai Maya, i peruviani dagli Incas, gli uruguaiani discendono dalle navi». In effetti, nella seconda metà dell’800 quasi il 70% della popolazione era costituita da immigrati dalla Francia, dall’Italia, dalla Spagna e dall’Est Europa, e queste persone portarono in Uruguay le loro tradizioni, la gastronomia e le mode: i palazzi Liberty, le squadre di calcio, le automobili Fiat, piatti come la cotoletta milanese e la torta pasqualina genovese.
Studi genetici condotti oggi dimostrano che è un po’ un mito il fatto che gli uruguaiani siano “purosangue europei”. Dietro il mito, infatti, c’è sempre una verità dolorosa: il massacro di Salsipuedes.
L’Uruguay fu per quasi due secoli teatro di conflitti geopolitici tra Spagna, Portogallo e Regno Unito e fu annesso con la forza prima come colonia spagnola e poi come colonia portoghese. Le tribù indigene dei Charrúas diedero un grandissimo aiuto al fronte indipendentista, guidato dal patriota José Gervasio Artigas. Qualche anno dopo l’indipendenza, il primo presidente uruguaiano, il generale José Fructuoso Rivera, l’11 aprile del 1831 convocò i Charrúas lungo le rive del fiume Salsipuedes.
I Charrúas erano pronti a discutere del loro futuro dentro il nuovo Stato, ma subirono una mattanza: 40 di loro furono uccisi e 300 furono fatti prigionieri. Fino a pochi anni fa, il loro ricordo rimaneva soltanto in riferimento alla nazionale di calcio uruguaiana, noti come i “charrúas”, di cui si celebra la “garra”, cioè il loro gioco agguerrito. Lo Stato non li riconosceva come popoli nativi e rimanevano nella mente degli uruguaiani solo nel contesto dei campi di calcio.
Per fortuna, negli ultimi decenni diverse comunità e organizzazioni indigene hanno iniziato a lottare per ottenere la loro dignità e conservare la loro cultura e si è arrivati all’11 aprile del 2009, in cui è stata approvata una legge che ha istituito la “Giornata della Nazione Charrúa e dell’Identità Indigena”
Per molto tempo, nel panorama latinoamericano l’Uruguay si è distinto per uno sviluppo sociale più elevato rispetto agli altri paesi dell’area: nel ‘900 l’Uruguay era noto come la «Svizzera d’America Latina»; Albert Einstein che lo visitò nel 1925 lo definì «un paese piccolo e felice, con istituzioni sociali esemplari». Dal 1877 l’istruzione è pubblica, gratuita e obbligatoria; la pena di morte fu abolita per legge nel 1907 e addirittura già nel 1927 le donne potevano votare. Sin dall’inizio del Novecento, inoltre, la giornata lavorativa era di otto ore, molto prima che negli Stati Uniti e nel resto del mondo. Anche la legge sul divorzio venne promulgata in Uruguay decenni prima che in Spagna e in Italia.
Ma già negli anni ’50 quest’immagine idilliaca dell’Uruguay cominciava a smembrarsi e iniziava un periodo di tensioni civili, politiche e socio-economiche che accelerò purtroppo il processo di discesa verso forme di governo sempre più autoritarie. Nel 1954, il calo del prezzo della lana e la diminuzione delle esportazioni di carne verso gli USA determinarono una gravissima crisi economica che portò l’inflazione al 136%.
Le tensioni esplosero nel 1968, quando il nuovo presidente Jorge Pacheco Areco, filoamericano e di tendenze conservatrici, avviò una severissima politica antinflazionistica in attuazione delle direttive del FMI, scatenando la reazione nei settori più colpiti dalla crisi; Pacheco allora adottò le famigerate “Misure di Sicurezza” per poter impiegare le Forze Armate e reprimere i lavoratori e gli studenti in sciopero.
Fu così che sorse il «Movimento di liberazione nazionale dei Tupamaros», che prendeva il nome da Túpac Amaru, il capo della rivolta indipendentista del Perù nel 1780. I Tupamaros erano all’inizio un movimento politico e non guerrigliero e l’eventuale uso della violenza era circoscritto alle rapine a banche e altri tipi di attività imprenditoriali per redistribuire la ricchezza tra i poveri. Nel 1968, però, dopo le violenze del governo contro gli scioperanti e la sospensione delle garanzie costituzionali da parte del presidente Jorge Pacheco Areco, il Movimento Tupamaro reagì con sequestri e omicidi politici, di cui furono vittime anche un ambasciatore britannico e un agente dell’FBI.
Il 27 giugno del 1973, un colpo di stato militare metteva fine al movimento, arrestando quasi tutti i leader Tupamaros. Cominciava così la dittatura di Juan María Bordaberry, basata sulla «dottrina della sicurezza nazionale che le gerarchie militari avevano interiorizzato nel campo di addestramento di Panama (la famigerata Escuela de las Americas), gestito e diretto dagli Stati Uniti.
Fu uno dei periodi più tristi e bui della storia dell’Uruguay: i militari diffusero un clima di paura e torturarono i prigionieri politici, causando di conseguenza l’abbandono del paese di 200.000 persone che si rifugiarono all’estero. Tra queste c’era anche Coco Cano, che patì comunque la galera e la tortura.
Si stima oggi che 202 uruguaiani sono stati uccisi in esecuzioni arbitrarie e sono stati calcolati 6000 prigionieri politici definiti di “larga data”, cioè che hanno passato in media otto anni in una delle due carceri politiche che erano Libertad per gli uomini e Punta de Rieles per le donne. L’Uruguay ancora oggi vanta purtroppo il triste primato di avere la percentuale più alta di prigionieri politici in relazione alla popolazione complessiva (che è oggi di circa 3 milioni e mezzo di abitanti).
Tra i prigionieri politici ci fu anche il futuro presidente Josè “Pepe” Mujica, che fu rinchiuso in un carcere militare per quasi dodici anni, la maggior parte dei quali trascorsi in completo isolamento in un braccio ricavato da un pozzo sotterraneo. Mujica era tra quei prigionieri considerati ostaggi, che in caso di ulteriori azioni militari dei Tupamaros ancora in libertà, sarebbero stati immediatamente fucilati. Visto che per questo motivo non potevano ucciderlo, i militari provarono a farlo impazzire, ma lui resistette parlando con le formiche.
Francesca Lessa, ricercatrice presso il Latin American Centre dell’Università di Oxford, ha spiegato in un’intervista:
Molti autori segnalano che la dittatura uruguaiana è stata quella più simile alla dittatura immaginaria di Orwell, uno stato totalitario che entrava in tutti gli aspetti della vita dei cittadini, quando anche per fare una festa di compleanno bisognava richiedere un permesso. I cittadini venivano divisi in categorie: A, B o C. Se eri un cittadino dell’ultima classe, non potevi avere un passaporto, non potevi lavorare, tutte le tue possibilità di vita erano praticamente azzerate.
Questo evidenzia quanto quello uruguaiano sia stato un regime molto totalitario e assoluto; in più è stato particolarmente efficace a nascondere per molti anni gli aspetti ancora peggiori della repressione politica. Per esempio, per molto tempo le forze armate hanno giustificato i casi di sparizioni forzate in territorio uruguaiano, che sono circa una trentina, dicendo che si trattava di persone che non avevano sopportato la tortura e quindi erano morte in conseguenza della tortura. Dopo molti anni in realtà, quando sono stati trovati alcuni dei pochi corpi delle persone scomparse, l’evidenza forense nelle autopsie sui corpi ha dimostrato che era anche quella appunto una scusa per cercare di mitigare le esecuzioni sommarie.
Nel 1980 i militari al potere indissero un referendum attraverso il quale intendevano istituzionalizzare il loro regime autoritario, ma questo referendum fu bocciato con il 57,2% dei voti contrari. Lentamente l’opposizione si riorganizzò e si moltiplicarono le manifestazioni di disobbedienza civile, pacifiche e nonviolente, alimentate dalle difficili condizioni economiche. Dopo uno sciopero generale di 24 ore coraggiosamente portato avanti dall’intera popolazione, nel gennaio del 1984, si riannodarono i colloqui tra la giunta militare e i partiti politici e si avviò un processo di ritorno alla vita democratica.
I militari uscirono di scena con l’impegno che i governi seguenti non avrebbero processato i responsabili delle efferatezze compiute. Quella dei desaparecidos, dei torturati e degli esiliati è tuttavia una ferita ancora aperta nel tessuto sociale del paese. Sicuramente l’immagine di Pepe Mujica, da comandante tupamaro torturato a presidente che rifiuta la vendetta, ha rappresentato una prima forma di riappacificazione con il passato.
Ma non è sufficiente, perché ci sono stati soltanto 15 processi e una quarantina di condanne. In un regime totalitario che aveva represso così tanto la vita delle persone, non è credibile che i responsabili fossero così pochi. Come per tutte le dittature che hanno torturato e ucciso in tutta l’America Latina, purtroppo il cammino per avere giustizia è ancora molto lungo e doloroso.
L’INTERVISTA
Clavel del aire: Che ricordi hai della tua amicizia con Eduardo Galeano?
Coco Cano: Ho molti ricordi con Eduardo Galeano. Quando tornò dall’esilio venne a vivere nel mio quartiere, Malvín. Ci vedevamo lì a volte, camminavamo sul lungomare e lui veniva con il suo cane Morgan, era sempre una festa e qualsiasi argomento serviva per fare lunghe conversazioni e riflettere sulla vita, sulla gente, su di noi.
È sempre stato un piacere stare con lui. Nella sua casa di Malvín abbiamo fatto cene memorabili e meravigliose, mi ricordo di una in particolare in cui c’erano Idea Vilariño, Mario Benedetti e molti altri amici.
A lui piaceva cucinare, soprattutto le animelle alla griglia, che gli venivano buonissime. Ma la vera cuoca, meravigliosa, era sua moglie Helena. La casa di Galeano (“la casa degli uccelli”, così la chiamavano nel quartiere per l’enorme murales che c’era in giardino) era un posto da sogno, fare conversazione e fantasticare fino all’alba era qualcosa di sublime…
In sintesi, la cosa più bella e importante che ho fatto con Galeano era ascoltarlo.
Clavel del aire: Com’è nata la tua collaborazione con Sur per realizzare le copertine dei libri di Galeano?
Coco Cano: Gli amici di Sur hanno conosciuto il mio lavoro attraverso mio figlio Federico, durante una fiera letteraria. Hanno saputo che io ero amico di Eduardo e mi hanno contattato. Da lì è iniziata una collaborazione che continua ancora oggi, per loro ho realizzato le copertine di Le vene aperte dell’America Latina, Chiuso per calcio e adesso è appena stato pubblicato Il libro degli abbracci.
Clavel del aire: Quali sono gli scrittori o le scrittrici a cui sei più affezionato come lettore?
Coco Cano: Ci sono molti scrittori che considero fondamentali nella mia formazione. Gabriel García Márquez ovviamente, e poi Manuel Scorza, Mario Benedetti, Julio Cortázar, Juan Gelman, Jorge Luis Borges, Eduardo Galeano e molti altri. Ma, come per la mia formazione artistica, io sono fatto di molti. Sono molti gli artisti che mi hanno formato negli anni, sia per quanto riguarda la letteratura che l’arte e la musica.
Clavel del aire: Ti senti ancora molto legato all’Uruguay – “il paese a forma di cuore”, come lo chiami tu – nonostante tutto quello che hai passato?
Coco Cano: Sì, sono sempre molto legato affettivamente all’Uruguay, adesso vivo metà anno in Italia e metà anno a Montevideo, per cui il vincolo è ancora molto forte. Cerco di prendere le cose positive e importanti da entrambi i paesi in cui vivo. È un’esperienza interessante che mi arricchisce molto. A volte è difficile conciliare le due vite, ma è sempre affascinante.
Clavel del aire: Hai dichiarato più volte che l’artista a cui t’ispiri di più è Joaquín Torres García, ma tu stesso dici che quando dipingi non sai esattamente dove stai andando. È sempre stato così, o è l’esperienza che ti ha permesso di adottare quest’approccio più libero e creativo?
Coco Cano: Torres García ha segnato profondamente tutti gli uruguaiani. Quando sono arrivato in Europa ho potuto conoscere da vicino gli artisti che avevo studiato nei libri, loro mi hanno aiutato a formare il mio stile artistico e sono: Mirò, Tapies, Paul Klee, Kandinsky, Chillida e Chagall. Credo che nel mio lavoro ci sia un po’ di ognuno di loro.
Clavel del aire: In un’intervista hai raccontato che, dopo gli anni di dittatura che hai vissuto in Uruguay e l’esilio, non riuscivi a dipingere a colori. Usavi solo il bianco e il nero. Dopo la nascita di tuo figlio Federico hai ritrovato i colori, come se fossi tornato alla vita. Sei passato poi da dipinti con un’altissima concentrazione di colori a l’inserimento di spazi bianchi. Che rapporto hai oggi con i colori?
Coco Cano: Oggi il colore ha invaso la mia vita. Dopo il difficile periodo che ho vissuto a causa della malattia e la morte di mia moglie, ho ripreso il colore piano piano e, soprattutto, ho ripreso a vivere. E voglio vivere a colori.
Io ringrazio ancora Coco Cano per quest’intervista e per avere apprezzato il mio progetto fin da quando era semplicemente un’idea astratta nella mia testa. Grazie anche a voi per avere letto fino a qui, spero che questo post vi abbia arricchito di cose che non conoscevate e che vi abbia fatto venire voglia di esplorare ancora di più l’Uruguay, la sua storia e la sua cultura.
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Un abrazo, ci ritroviamo qui a fine ottobre e chissà dove ci porterà il prossimo viaggio!